il venerdì, 10 giugno 2022
Intervista a Jacopo Gassmann
Al teatro Greco di Siracusa nel 1950 Vittorio Gassman è Dioniso ne Le Baccanti di Euripide e il Messo ne I Persiani di Eschilo, diretto da Guido Salvini, nel 1954 è Prometeo nel Prometeo incatenato di Eschilo con regia di Squarzina, e nel 1960 è clamorosamente Agamennone-Oreste nell’Orestiade di Eschilo con traduzione di Pier Paolo Pasolini e allestimento Gassman-Lucignani. Gli spettacoli classici 2022 di Siracusa vedono ora Jacopo Gassmann regista dal 17 giugno al 4 luglio di Ifigenia in Tauride di Euripide. Nel cast Anna Della Rosa, Ivan Alovisio, Massimo Nicolini, Stefano Santospago, Rosario Tedesco, Alessio Esposito. Repliche il 15-16 luglio a Pompei, e il 14-15 settembre a Verona.
Jacopo, lei consolida un ciclo famigliare, 62 anni dopo l’ultima impresa paterna. Che responsabilità porta, e a che nuova scena pensa?
"Io non c’ero quando mio padre lasciò i suoi segni al Teatro Greco. Ma conosco la leggenda, il memorabile accostamento a Pasolini, e m’imbatto oggi nel suo ritratto dentro il Palazzo dell’Inda. Sento l’onore d’un nome, e la fiducia di Antonio Calbi, sovrintendente della Fondazione. Se guardo avanti, osservo che il mio Oreste di Euripide è curiosamente molto diverso da quello di Eschilo, in un’opera più complessa, stratificata, con narrazioni ibride. Una tragedia con tutti i crismi fino a metà, mentre dopo il riconoscimento tra i fratelli Ifigenia e Oreste la cupezza dei sacrifici umani nella Tauride - l’attuale Crimea - cede il posto a un dubbio, tipico dei sofisti, verso i miti e l’inganno del linguaggio, e a uno spirito critico per divinità e statuti olimpici. Euripide sviluppa uno sguardo moderno".
Lei ha scelto un lavoro greco antico permeato di domani. Dove sta e come si spiega il mutamento, nel pensiero e nel mondo di Euripide?
"Al tempo Atene sta entrando in una grave crisi politica e militare, ma la crisi profonda è nella cultura. Euripide frequenta filosofi come Socrate, che scalza le certezze, si fa domande sulla realtà e sul come conoscerla. La Tauride è una no man’s land dove Artemide ha trasformato Ifigenia in sua barbara sacerdotessa (dopo averla sostituita con una cerva al sacrificio crudele del padre Agamennone), e qui i destini sono decisi anche da agenti naturali come acqua, aria e caos cosmico. Per liberare l’Oreste matricida dai tormenti delle Erinni che non ne accettano l’assoluzione, Apollo gli chiede di trafugare nella terra dei Tauri la statua di sua sorella Artemide e portarla ad Atene. Oreste è scosso da sensi di colpa e nervi: ecco uno stress dei nostri giorni. Condivide le sorti con l’amico Pilade, ha un’agnizione con la sorella, si alleano tutti per una fuga: un’escape tragedy. All’inizio lei si autodefiniva morta e viva: ora si butta in una mission impossible, in un testo di contraddizioni, sogni, incubi, scissioni, allucinazioni, sequel. Che c’è di più impervio e distopico, quasi da Matrix del terzo millennio?".
Detto così, sembra un film d’avventura ma con finale non terribile, non funesto...
"Certo, non c’è epilogo di morte, di lutto. Il grande fascino di questa tragedia sta nel fatto che l’autore fa alcuni salti verso il Novecento di Pirandello. I personaggi si sdoppiano tra un sé vittima e un sé che si osserva da fuori. Ifigenia chiede dei generali greci e quando apprende che il padre Agamennone è morto reagisce scossa dal pianto. I racconti sono per associazione, per doppi binari, per comporre una specie di archivio di Borges. Aristotele diceva che questa è la tragedia perfetta. E gli stratagemmi di Ifigenia sono da prototipo dell’intellettuale femminile, sembra un Prospero donna. Io aggiungerei che è una tragedia dei figli, dei sopravvissuti ragionatori, nomadi inquieti a vita".
Epoca di riferimento?
"Non c’è la landa beckettiana che scelse nella sua bella edizione Massimo Castri. Io ho concepito un grande tempio in un paesaggio lunare siderale, senza tempo, con un parallelepipedo che sarà un monolite kubrickiano. Materiale opaco dove vedremo ombre, un luogo dell’inconscio, e video e teche di plexiglass con più rimandi. È stata una tragedia rivisitatissima, questa, da Goethe, Gluck al dipinto di Tiepolo, con rappresentazioni dell’amicizia tra Oreste e Pilade, e più storie nel cinema, e veri tesori da museo. Ma tengo a dire quanto fenomenale e sensibile sia qui la risorsa dei sei artisti con cui lavoro, con in più un Coro molto unito di più scuole".
Lei prima si riferiva, per questo Euripide, a una storia di figli. Una mostra rende omaggio a Roma ai cent’anni dalla nascita di Vittorio Gassman. Istintivamente che pensieri le suscita suo padre?
"Avendo avuto confidenza con le sue inclinazioni umane e intellettuali, trovo che il suo ricordo delle Orestiadi tradotte da Pasolini lo avrebbe appassionato all’idea della coincidenza attuale del centenario suo e di quello, appunto, di Pasolini. E mi emoziona il passaggio di testimone, a Siracusa, da una tragedia con i padri di allora a questo curioso testo di figli di adesso. Io porto nel cuore quotidianamente i ricordi privati. Su Pasolini scrissi la mia tesi di laurea. Su papà potrei scriverne dieci. Stampate dentro di me".