il venerdì, 10 giugno 2022
Una notte al Watergate
Il portiere con la bombetta (parte della divisa creata da Janie Bryant, costumista della serie Mad Men) ti precede con passo sicuro nel labirinto a pianta semicircolare che è il Watergate Hotel, ben sapendo che sta per spalancarti la porta di quello che fu il segreto meglio custodito d’America. Sì, la camera 214, oggi contrassegnata da un cartellino che recita a favor di pubblico "Scandal Room". Eccola la stanza dove prese forma la madre di tutti gli scandali politici che ancora oggi ci spinge a declinare col suffisso "gate", cancello, ogni disonestà politica scoperta a dispetto di tentativi d’occultamento, con buona pace del fatto che Watergate in realtà alludeva a una vicina diga eretta nel 1930 per agevolare la navigazione in battello sul fiume Potomac. Un vano di circa 20 metri quadrati, nel cuore dell’esteso complesso modernista formato da sei edifici (ci sono pure tre condomini e due blocchi di uffici) realizzato nel 1967 dall’italiano Luigi Moretti - l’architetto del mussoliniano Foro Italico - con uno stile così diverso dal dominante neoclassicismo di D.C. da essere definito dal critico dell’architettura Wolf Von Eckardt "inopportuno come un ballerino di strip dance che balla al funerale della nonna". Eppure proprio l’estrema modernità rese fin da subito il 2600 di Virginia Avenue, 20 minuti a piedi da Capitol Hill, l’indirizzo più ambito della città: trasformato, nei primi anni, in una sorta di succursale della Casa Bianca di Richard Nixon. Qui, per dire, a inizio anni 70 alloggiavano l’influente senatore Bob Dole, il procuratore generale John Mitchell con la moglie Martha, volto della propaganda repubblicana finché non decise di raccontare la sua verità e fu bollata come "alcolizzata". E pure Rose Marie Woods, segretaria del Presidente. Nel tempo è stato scelto da politici come Condoleezza Rice, dal tenore Placido Domingo, dall’attrice Elizabeth Taylor e pure da Monica Lewinsky che ci si rifugiò dopo la turbolenta relazione con Bill Clinton. Fino alla giudice suprema e icona femminista Ruth Bader Ginsburg.
È proprio qui che mezzo secolo fa, la notte del 17 giugno 1972, cinque uomini che avevano precedentemente cenato ad aragosta e scotch nel ristorante dell’hotel furono sorpresi all’interno del Comitato Nazionale Democratico che da quattro anni aveva il suo quartier generale nell’ambito (e costoso) complesso. C’erano già entrati tre settimane prima, il 27 maggio, per piazzar microfoni che però non funzionavano bene. Oggi sappiamo che avevano avuto pure l’ordine di fotografare "ogni documento possibile". Il loro arresto fu il primo atto del terremoto politico passato alla storia come Scandalo Watergate che due anni dopo, il 9 agosto 1974, avrebbe portato alle dimissioni di Nixon, nel frattempo vincitore di un secondo mandato anche grazie a una fitta trama di sviamenti. Insabbiamenti svelati soprattutto grazie alle instancabili inchieste di due giornalisti del Washington Post che inizialmente non si potevano soffrire: Bob Woodward e Carl Bernstein, le cui gesta sono entrate nell’immaginario collettivo americano (e non solo) grazie al film Tutti gli uomini del presidente, tratto dal loro memoir dall’omonimo titolo. Investigazioni rimpolpate dalle soffiate di "Gola Profonda", il misterioso insider incontrato segretamente da Woodward in un garage poco distante dall’Hotel Watergate ma dall’altro lato del Potomac (c’è ancora, contrassegnato da una targa, al 1491 di Wilson Boulevard di Rosslyn, ad Arlington, Virginia), dopo avergli segnalato la necessità di vederlo piazzando una bandierina rossa sul balcone del suo appartamento al 1618 di Ninth Street. Quell’uomo era Mark Felt, il superpoliziotto che svelerà la sua identità solo nel 2005. All’epoca numero due dell’Fbi agì per onore e amor di patria, certo. Ma pure perché indispettito dalla scelta di Nixon che alla morte di John Edgar Hoover gli preferì il malleabile Partick Grey come capo dell’agenzia.
Per fare un balzo nel tempo ed accedere alla 214 dove passato, presente e futuro s’intrecciano, ti aspetti che il portiere tiri fuori un vecchio mazzo di chiavi. Invece usa una scheda magnetica. E pazienza se, al secondo piano com’è, la vista è poco appetibile. A essere cruciale fu l’affaccio sull’attraversamento che porta al palazzo vicino, dove all’epoca al sesto piano c’erano appunto gli uffici Dem. Ecco perché Bernard Barker ed Eugenio Martinez, due dei cinque scassinatori, insistettero per avere proprio quella stanza. Mentre gli altri due anticastristi appositamente arrivati da Miami, Virgilio Gonzalez e Frank Sturgis, prendevano la 314, esattamente sopra (il quinto uomo, James McCord, l’ex Cia a capo della sicurezza della campagna per la rielezione di Nixon, la cui presenza fece scaturire i primi sospetti di collegamenti illeciti con la Casa Bianca, aveva casa a Washington).
In questa stanza composta da corridoio, bagno, camera da letto e terrazzino affacciato sul camminamento quella notte si piazzarono l’ex Cia Howard Hunt e l’ex Fbi Gordon Liddy. Che poi era il capo dei plumbers, gli "idraulici", ovvero la squadra voluta da Nixon per bloccare i troppi leaks (che in inglese significa perdite certo, ma soprattutto fuga di notizie) all’indomani di un altro scandalo: la diffusione dei Pentagon Papers, documenti riservati sulla guerra in Vietnam pubblicati da New York Times e Washington Post. Riguardavano la precedente amministrazione: ma fecero tremare anche Nixon, così ossessionato dal voler imporre Law and Order, legge e ordine (il suo slogan più riuscito, poi ripreso pure da Donald Trump che da lui tanto ha imparato) da finire per violarle sistematicamente. Oggi Liddy è la mente riconosciuta della sciagurata azione al Watergate. Eppure era solo un ripiego rispetto al suo ben più complesso piano volto a minare con ogni mezzo un’eventuale vittoria democratica. L’aveva chiamata Operation Gemstone perché a ogni gemma corrispondeva una potenziale azione illegale. Per dire: Ruby, rubino, consisteva nell’infiltrare le fila della campagna dem (e fu in parte realizzato). Sapphire, zaffiro, mirava a screditare gli avversari con scandali sessuali. Diamond, diamante, ipotizzava il rapimento dei leader della protesta studentesca. E Turquoise, turchese, era la colorita ipotesi di sabotare il sistema d’aria condizionata della Convention Democratica di Miami, per imporre al candidato prescelto di tenere il suo discorso nel caldo torrido di una sala strapiena. Fortunatamente, quei progetti furono molto ridimensionati. Ma l’idea di intercettare gli uffici del Comitato Dem nel Watergate sopravvisse. Liddy ne discusse a grandi linee con il procuratore generale John Mitchell, il consigliere della Casa Bianca John Dean e l’aiutante di Nixon, Jeb Magruder, gli stessi poi coinvolti nel tentativo d’insabbiamento. Non ebbe un consenso pieno. Ma nessuno gli disse di no.
Peccato che la "Scandal Room 214", dove trascorrere una notte costa oggi mediamente 1500 dollari - e dove, fino a prima della pandemia, con 2500 era incluso pure un drink con Paul Leeper e John Barrett, due degli agenti in borghese che fecero irruzione nel Watergate rispondendo alla chiamata allarmata del guardiano notturno Frank Wills (l’afroamericano morto in povertà il cui unico momento di gloria fu interpretare se stesso in Tutti gli uomini del presidente) - è completamente rifatta. I memorabilia originali andarono all’asta nel 2009 per pochi soldi, quando le sorti dell’hotel erano incerte. Rimasto chiuso nove anni, il Watergate è stato acquistato solo nel 2010 da Jacques e Rakel Cohen per "appena" 45 milioni di dollari: e riaperto nel 2017 dopo un rinnovo da 150 milioni firmato dall’archistar israeliano Ron Arad. La "Scandal Room" è stata ricreata un anno dopo. Disegnata da Lyn Paolo, designer hollywoodiana di saghe tv come, guarda un po’, Scandal e Inventing Anna. "Al suo interno hanno girato pure molte scene di Gaslit, la serie sul Watergate con Julia Roberts e Sean Penn nei panni dei Mitchell" racconta Simon, il portiere dell’hotel. "La settimana prossima aspettiamo un famoso scrittore. No, non posso dirle chi, ma viene spesso qui a scrivere. Dice che l’ambiente lo stimola". Sfido. Nel resto dell’hotel i riferimenti al "fattaccio" sono presenti, ma discreti. Per dire, il numero del servizio clienti è quello della data dello scandalo, 617-1972. Sulle chiavi delle stanze c’è scritto "no need to break in", non c’è bisogno di irrompere. Sulle matite "I stole this from the Watergate", una confessione di furto. E quando il centralino ti mette in attesa si sente la voce di Nixon ripetere "I am not a crook", non sono un truffatore: passaggio di una sua celebre conferenza stampa del 1973.
Ma nella "Scandal Room" ogni oggetto - escluso il moderno comfort di una tv a schermo piatto, dove comunque passano immagini d’epoca - è ispirato allo scandalo. Il corridoio d’ingresso è tappezzato di giornali d’epoca. Sulla scrivania c’è una Olivetti Lettera 32: come quella utilizzata nelle redazioni dei giornali che ricostuirono i fatti. C’è un binocolo: a ricordare come, durante l’irruzione, un altro ex Fbi, Alfred Baldwin, faceva da palo dall’altro lato della strada. Né manca un registratore a bobina proprio come quelli con cui si autoregistrava il paranoico Presidente: nastri che nel 1975 consegnò sì alla giuria popolare che indagava sui suoi assistenti (Nixon nel frattempo era già stato perdonato dal successore Ford), ma privi di 18 cruciali minuti dove discuteva dello spinoso caso coi collaboratori "accidentalmente" cancellati.
Ciò che manca, nella 214 è la risposta al quesito che 50 anni dopo ancora tormenta gli storici: quali informazioni si sperava di carpire dal Comitato Democratico? Secondo Garrett M. Graff, giornalista autore del recentissimo Watergate: A New History, dove ha raccolto mezzo secolo di inchieste, rivelazioni e indagini, il raid era teso a scoprire se i dem fossero a conoscenza di potenziali scandali che coinvolgevano Nixon per poi usarli in campagna elettorale. Le teorie vanno verso tre piste: il permesso concesso a febbraio di quell’anno al colosso Itt per compiere un’acquisizione precedentemente bloccata dall’AntiTrust in cambio di 400 mila dollari donati alla campagna presidenziale repubblicana (Liddy e Hunt, d’altronde, ipotizzarono perfino di far uccidere il giornalista del Nyt Jack Anderson che l’aveva svelato).
Un’altra teoria, emersa negli anni 90, parla di un giro di prostitute d’alto bordo che frequentarono, per ricattarli, politici democratici. Fra queste c’era Erika Rikan, amica di Maureen Biner, moglie del consigliere giuridico della Casa Bianca John Dean e dunque si voleva scoprire se i Dem avessero fatto il collegamento. Infine l’ipotetica greek connection: finanziamenti illeciti fatti dalla giunta militare greca alla campagna per la rielezione di Nixon attraverso l’imprenditore greco Thomas Pappas. Domande che restano senza risposta, dietro la porta chiusa della "Scandal Room".