Avvenire, 10 giugno 2022
Freud e l’ebraismo
«Se gli venisse rivolta la domanda: ’Dal momento che hai lasciato tutti questi elementi [religiosi] che ti accomunano ai tuoi connazionali, cosa ti è rimasto di ebraico?’ la sua risposta sarebbe: ’Moltissimo, probabilmente ciò che più conta’. Tuttavia egli non saprebbe al momento esplicitare a chiare lettere in cosa consista questa natura essenziale dell’ebraismo; ma confida che un giorno o l’altro essa diventerà intellegibile per la scienza». Così nella prefazione di Totem e tabùFreud scrive – ironicamente in terza persona – del suo rapporto con l’ebraismo e in questa singolare professione di fede si può leggere in filigrana il nucleo della sua scoperta così travolgente e così sfuggente, quella dell’inconscio. È come se l’anima – la psiche per usare un termine apparentemente meno impegnativo – con i suoi immensi giacimenti inconsci, sia appunto «ciò che più conta» al di là della coscienza. Nel 1927 in un’intervista affermava di essere un «infidel jew». Fino agli ultimi giorni, nell’esilio a Londra, nell’elegante cottage a Hampstead, si confrontò con l’ebraismo nel suo «romanzo storico»: lui, lo scienziato aveva scelto questa definizione per il suo scritto su
L’uomo Mosè e la religione mono-teistica, terminato nel 1938.
Tutta la sua ricerca – che coincide con la sua vita – tenta (spesso con successo) di afferrare ’ciò che più conta’, come racconta in una nuova e accurata biografia il germanista berlinese Peter-André Alt, autore di fortunate biografie, che affronta – dopo quelle dedicate a Schiller e a Kafka – la vita e l’opera del fondatore della psicoanalisi in una imponente monografia Sigmund Freud. Il medico dell’incon-
scio (traduzione di Aglae Pizzone e Lorenzo Marinucci). In tedesco il titolo è più intrigante: Il medico della modernità. A differenza di quella ’canonica’ di Ernest Jones, il discepolo fedele, la biografia di Alt risente della sua formazione storicoletteraria: è un racconto che ricostruisce l’ambientazione culturale della Vienna dell’epoca. Freud in realtà era nato nel 1856 a Freiberg, oggi Príbor in Moravia. I genitori provenivano dalla Galizia orientale, provincia dell’Impero asburgico, che oggi fa parte dell’Ucraina. Memorie mai rimosse. Ancora nel 1931 Freud annotava di essere «un ebreo della Moravia, i cui genitori provenivano dalla Galizia austriaca». Vi era una particolare intensità nell’accentuare le radici austriache della famiglia e quel lento avvicinarsi al centro: a Vienna.
Questa storia di migrazioni spiega, per contrasto, l’incredibile sedentarietà di Freud che visse per 47 anni nella Berggasse, 19 (oggi ospita il museo a lui dedicato). Se ne dovette andare il 4 giugno 1938 perché i nazisti viennesi stavano attuando uno scellerato piano antisemita. La fama internazionale non l’avrebbe difeso. All’espatrio verso Londra fu costretto a firmare una indecente dichiarazione che tutto si era svolto nella normalità e nel rispetto. Con la sua solita ironia volle aggiungere che raccomandava a chiunque la Gestapo. Berggasse, Via del monte: viene in mente la celebre poesia di Umberto Saba, pure lui ebreo e aperto alla nuova ’scienza ebraica’: «A Trieste ove son tristezze molte, / e bellezze di cielo e di contrada, / c’era un’erta che si chiama Via del Monte. / Incomincia con una sinagoga». In quell’appartamento buio, senza grandi comfort, si svolse una delle vite più intense intellettualmente ed emotivamente della modernità. Rari furono i viaggi. Una meta importante dal 1895 fu l’Italia, cui si recava spesso. Era attratto da Roma, eppure qualcosa lo tratteneva finché nella tarda primavera del 1901 vi giunse: Annibale entrò finalmente a Roma. L’eroe cartaginese era il suo preferito e il rapporto con Roma era intriso di queste memorie storiche e psichiche: «Annibale e Roma simboleggiavano per me adolescente il contrasto tra la tenacia dell’ebraismo e l’organizzazione della chiesa cattolica». All’amico Fliess aveva confessato nel 1897: «Il mio desiderio di andare a Roma è profondamente nevrotico».
Come Goethe, anche Freud attese la morte del padre. Si trovò – ’per caso’ – a San Pietro in Vincoli, folgorato dal Mosè. Tornò per altre sei volte a Roma. Il saggio su Il Mosè di Michelangelo è il simbolo di quel rapporto complicato che è il segnale dello scioglimento di un nodo – quello con la dimensione monumentale paterna e con l’altra radice dell’Occidente, quella classica e cattolica. Sono – quelli prima della Grande Guerra – gli anni della fondazione della nuova scienza e dell’Associazione psicoanalitica, ma anche quelli dei primi abbandoni, i più dolorosi furono quello di Adler e soprattutto quello di Carl Gustav Jung, idealmente prescelto come l’erede. Le loro ricerche e vite presero direzioni diverse, contrastanti. Alt giunge persino ad affermare – con dubbio fondamento – che Jung nel 1934 si sarebbe trasformato «in un simpatizzante del nazismo», cozzando con le interpretazioni più accreditate. Certo che la connessione tra psicoanalisi ed ebraismo – ampiamente affrontata da Alt – presenta aspetti di enorme interesse scientifico e storico. Tra i numerosi approcci si può ricordare l’intrigante meditazione freudiana che proprio l’arcaicità dell’ebraismo favoriva quell’itinerario ’archeologico’ nei fondali atavici della psiche. Tuttavia accanto alla ’question juive’ Freud avvertiva il proprio legame con l’identità culturale, storica e linguistica tedesca, insieme però all’incombente dramma identitario che l’antisemitismo militante proponeva agli ebrei, massimamente quelli austriaci. Non a caso Hitler era austriaco e proprio nei suoi anni viennesi si era ’formato’ il suo radicale e violento antisemitismo. Già nel 1926 Freud affermava, orgogliosamente e dolorosamente: «La mia lingua è il tedesco. La mia cultura, la mia educazione sono tedesche. Io mi sono ritenuto spiritualmente un tedesco, fino a quando non ho osservato l’avanzare dell’antisemitismo in Germania e nell’Austria tedesca. Da allora preferisco dichiararmi ebreo».
Nel 1930 in un sussulto di dignità la Germania gli conferì il prestigioso Premio Goethe. Per il compleanno nel maggio 1939 – l’ultimo – Einstein gli inviò un messaggio che onorava la grandiosa qualità letteraria di Freud: «Io ammiro in modo particolare la Vostra abilità, così come tutti i vostri scritti, da un punto di vista letterario. Non conosco alcun contemporaneo che abbia esposto i propri argomenti in tedesco con tale maestria». Quale ironia! Circondato dalla venerazione universale (eccetto che in patria, dove i suoi libri vennero bruciati pubblicamente), trascorreva – con immensi dolori per l’inarrestabile carcinoma alla bocca – i suoi ultimi giorni nello studio londinese, ricostruito, dalla figlia Anna, proprio come quello della Berggasse. «Ecco, è tutto come prima, manco soltanto io», pare che avesse detto. Morì il 23 settembre 1939, a Londra, dove è sepolto.