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 2022  giugno 10 Venerdì calendario

Intervista a Valerio Binasco

«Out of the blue» è il claim che si è dato il Teatro Stabile di Torino per la prossima stagione 2022/2023. Eccellenza tra i teatri italiani, l’unico a far parte del network «mitos21», che riunisce il gotha dei teatri europei. Dunque «Out of the blue», all’improvviso, inaspettatamente. Di punto in bianco. Frase idiomatica che nel suo significato trascende la traduzione. Oppure no. Per Valerio Binasco che ne cura la direzione artistica, non è tanto l’«oplà» a restituirgli un senso. «Out of the blue» per lui «decreta l’uscita da una zona saturnina, cupa, ci si sporca di blue e poi si esce dalla notte per volgersi verso colori accesi. Io di carattere sono blue e solo in scena mi si accende tutto. Poi esco e torno blue».
Eppure lo slogan regge al di là di come lo si voglia interpretare perché sostiene perfettamente «la volontà di sollecitare pensieri laterali, talvolta anche scomodi e fuori dagli schemi» come afferma Filippo Fonsatti, direttore del Teatro Stabile. Sessantasei titoli programmati 20 produzioni (9 nuove produzioni esecutive, 11 coproduzioni), 30 spettacoli ospiti e 17 allestimenti per Torinodanza. Uno sbigliettamento che corre veloce, iniziato già prima che il pubblico conoscesse le proposte in cartellone, come avverte il Presidente Lamberto Vallarino Gancia. Una squadra di registi tra i quali Filippo Dini, Leonardo Lidi e l’ungherese Kriszta Székely.
Binasco, che linea si è dato come direttore artistico?
«Ho messo in piedi una squadra di creativi del teatro, interessati agli attori e a raccontare storie. Poco teatro e tanta vita. Attenti a questa sensibilità».
E come regista?
«Mi sono ritagliato due titoli. Il primo è un inedito di Melania Mazzucco, Dulan la sposa, una commedia molto contemporanea, attenta ai rapporti familiari più torbidi, una vicenda che coinvolge una giovane extracomunitaria, schiavizzata da un signore che la sfrutta sotto tutti i punti di vista. Una sorta di thriller. E poi in primavera Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello, un viaggio all’interno di un titolo tra i più sacri, patrimonio dell’umanità. Voglio vedere se resiste ancora qualcosa di palpitante e di non espresso dentro questo testo che pareva essersi esaurito. Anche lì, una torbida storia familiare e una singolare compagnia d’attori. E sono proprio questi ultimi sui quali mi concentrerò in quanto bisognosi di un aggiornamento rispetto a quando Pirandello costruì la sua parodia».
Parlando di teatro lei ha evocato l’atto d’amore. Il suo per il teatro?
«Ci sono amori che durano anni e altri che sembrano sul punto di esaurire la loro passione. Resiste quell’amore che non dà niente per scontato. E ce lo regala il pubblico che ci dimostra tanto amore, non per noi artisti ma per il teatro. È qualcosa di magico».
Infatti il teatro sta vivendo una stagione di grande interesse e di successi al botteghino. È voglia di ritrovarsi insieme, il Teatro emblema della ripartenza?
«Ci si aspettava un colpo di grazia, dato dalla pandemia, dalla guerra, dai social. Invece arriva il pubblico e a quel punto è teatro. La sala piena di gente, i giovani che si presentano a frotte. Ma è inutile che io cerchi un senso del teatro dentro di me. Il senso arriva dal pubblico presente per soddisfare la sua esigenza di esserci, impellenza che si sposa perfettamente con la mia esigenza di fare. Questa compenetrazione rende l’atto teatrale poetico».
Il cinema invece non sta avendo la stessa ripartenza perché?
«Prendiamo atto che la sala teatrale crea un rito unico e irripetibile. Il cinema è fruibile come ti pare, ha una sua riproducibilità tecnica. Non è tramontato il film bensì l’effetto miracolo, è la sala ad aver perso, non l’opera. Il teatro non ha mai smarrito l’incanto e la sua debolezza si è rivelata una forza. La debolezza di chiedere agli spettatori di lavorare con la fantasia, è questo che l’ha reso eterno e ha fatto diventare la sala un luogo dove gli adulti giocano all’immaginazione».
Esiste un fil rouge che lega gli spettacoli che presenterete in cartellone? Si è parlato di uno sguardo più attento alla contemporaneità senza tralasciare la grande tradizione classica. È così?
«Il vero fil rouge è l’apertura del sipario, è offrire tanti spettacoli diversi. Non credo in questa operazione sofistica di cercare qualcosa che unisca qualcos’altro. Non c’è bisogno di un fil rouge culturale. Il compito del teatro è quello di attirare il pubblico, altro non serve».