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 2022  giugno 09 Giovedì calendario

“Gioconda” alla Scala è un sogno felliniano

Bastano alcune paline, un leone sospeso su un tronco di capitello, praticabili ad arco o che in trasparenza citano bifore e le colonnine agili del loggiato di palazzo Ducale. E poi maschere, Pulcinella tiepoleschi, gondole, vele, gomene. Stilizzate, da design (del resto, a Milano siamo nella settimana del Salone del mobile), senza folklorismi turistici. La Venezia di Davide Livermore e dei suoi abituali ipertecnologici e ridondanti collaboratori, è volutamente falsa, visionaria e soggettiva, una sorta di incubo postmoderno: tutta costruita come in Casanova di Fellini, ma riconoscibile. Non meno di quella città che La Gioconda di Amilcare Ponchielli mette in musica, intingendola in colori cupi e tragiche nebbiosità.
L’opera è in scena alla Scala, il teatro dove debuttò l’8 aprile 1876, e da dove mancava da un quarto di secolo. Lavoro di sostanza melodrammatica e tentativo di distinguersi (senza rinunciarvi) da Verdi, traduce in padano il modello del grand-opéra francese, secondo un’idea civilmente “scapigliata”. Specchio dei tempi e del giovanilismo degli autori (il libretto, sotto pseudonimo, è di Arrigo Boito) oggi Gioconda è un documento storico della stagione feconda che poteva contare sul miglior Verdi (Aidaè di cinque anni prima) e non ancora su Puccini (Willis, la sua prima esperienza operistica, appena riesumata a Parma, è del 1884). Raramente eseguita, è un azzardo. La nuova produzione della Scala, in scena per cinque recite fino al 25, l’ha ribadito. Sulla carta, la locandina era ditutto rispetto ma l’esito artistico mediocre. Perfino il pubblico di passaggio della prima s’è accorto di quanto fosse inadeguata la direzione di Frédérich Chaslin (beccato da qualche «bu» alla fine). Gesto legnoso, poca dimestichezza con la fraseologia melodrammatica, stentata comunicativa col canto e con la buca: in palco gli scivoloni ci sono stati, l’insicurezza ha influito anche sulla prestazione del coro, e l’orchestra ha riesumato un suono brutto e svogliato. Eppure, la partitura è opulenta ma non chiassosa (ma anche il popolarissimo divertissement La danza delle Ore, a dispetto della linda coreografia di Frédéric Olivieri, era uggioso), e – pensiamo al IV atto ma non solo – giocale migliori carte drammatiche e vocali in uno stile musicale e narrativo fatto di gesti strumentali calibrati sulle parole. La sommaria concertazione ha indotto i cantanti al fai-da-te. Hanno così spiccato l’accento truce ma non sguaiato di Roberto Frontali (Barnaba) e la classedi Daniela Barcellona. In gran forma era Erwin Schrott (Badoero), anche se impreciso, mentre è stata proprio la voce a non sorreggere al meglio Anna Maria Chiuri (Cieca). Prestazione nettamente divisa in due per laGioconda di Saioa Hernández, poco incisiva e in affannotecnico nei primi due atti è progressivamente cresciuta in autorevolezza, omogeneità di canto, e accento tragico, dando spicco all’estremo confronto con l’Enzo tagliato con l’accetta ma corretto del tenore StefanoLa Colla.