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 2022  giugno 09 Giovedì calendario

Intervista a David Mamet

Quando ha scritto American Buffalo nel 1975, David Mamet aveva 28 anni e non pensava affatto di dedicarsi al cinema, pur amandolo profondamente. Riteneva infatti che fosse il teatro a esaltare, attraverso l’uso del linguaggio, la verità più intima di persone trascurate o trasfigurate dai codici del mondo dello spettacolo. A quasi cinquanta anni di distanza, questa magnifica tragicommedia esistenziale trionfa nuovamente a Broadway con la regia di Neil Pepe e le interpretazioni di Laurence Fishburne, Darren Criss e Sam Rockwell, esaltando in tutta la sua musicalità di strada il cosiddetto Mamet speak ,condito da espressioni scurrili e spesso violente. In una New York resa fragile dalla pandemia, è a dir poco inquietante assistere alle vicende di tre disperati che progettano un’improbabile rapina per partecipare al sogno americano, ma quello che colpisce maggiormente è come il linguaggio riesca a essere realistico. Lo stesso vale per tutti i suoi film, a cominciare dal debutto La casa dei giochi, che Mamet presenterà l’11 giugno a piazza San Cosimato a Roma, nel festival estivo “Il cinema in piazza” organizzato dai ragazzi del Cinema America, ed è encomiabile che venga presentato in originale con sottotitoli, per esaltare quello che lui definisce «l’ingegneria della costruzione drammaturgica». La tecnica narrativa, e quindi anche il linguaggio, è lo strumento che utilizza per raggiungere la verità, che va difesa da ogni pregiudizio e rischio di rigidità ideologica. Secondo l’insegnamento di Churchill per cui «è meglio essere nel giusto che coerente » Mamet ritiene che la libertà intellettuale rappresenti un bene imprescindibile, e inizia questa conversazione esaltando Norman Mailer, il quale, dopo aver definito Aspettando Godot «spazzatura», acquistò una pagina a proprie spese sul Village Voice per ritrattare il giudizio, definendo il testo «un capolavoro».
«È la più grande opera teatrale del Ventesimo secolo», racconta con un tono così appassionato che sembra l’abbia appena visto «e fa onore a Norman aver avuto il coraggio di ammettere l’errore. Quello che dice Churchill è l’approccio sano, libero e non ideologico, che si deve mantenere su ogni cosa».
Si può affermare che “American Buffalo” sia una rivisitazione in chiave americana proprio di “Aspettando Godot”?
«Credo che il capolavoro di Beckett abbia rappresentato uno spartiacque imprescindibile non solo per il teatro, ma in generale per la cultura mondiale, e quindi ogni testo, direttamente o indirettamente, è influenzato da Aspettando Godot ».
E si può dire che “Glengarry Glen Ross”, per cui ha vinto il Pulitzer, nasca da una costola di “Morte di un commesso viaggiatore”?
«Mi sta dicendo che quello che scrivo è derivativo?».
No, mi limito a chiedere che importanza abbia avuto un altro grande testo, nel quale, come nel suo dramma, i protagonisti sono schiacciati da un sistema spietato.
«Quando ho scritto Glengarry Glen Rossnon avevo intenzione di partire dal lavoro di Miller, ma raccontare personaggi che avevo avuto modo di incontrare, la cui esistenza era devastata da un lavoro spietato. È inevitabile che abbia assorbito altre suggestioni, come è successo in American Buffalo ».
Lei era un autore teatrale già molto affermato quando ha iniziato a scrivere per il cinema e poi ha debuttato nella regia.
«Me lo chiese Bob Rafelson per il suo remake del Postino suona sempre due volte ,e in seguito venni convocato da Peter Yates, per cui scrissi La casa dei giochi e Homicide . Credo che Yates sia stato un grande del noir: era inglese, ma sapeva cogliere come pochi alcune atmosfere americane, come nel bellissimo Gli amici di Eddie Coyle. Per questioni produttive non venne messo in condizione di dirigere e mi venne offerto di debuttare con un budget di 4 milioni di dollari: mi sono tuffato senza pensarci due volte mantenendo il cast principale, composto da Joe Mantegna con cui lavoravo da sempre e Lindsay Crouse, che all’epoca era mia moglie. E ci ho preso gusto: ora tendo a dirigere tutti i copioni che scrivo».
Cos’ha il cinema che il teatro non può offrire?
«Il cinema è immagine in movimento, e questi due aspetti non solo sono centrali, ma sono esaltati dal linguaggio cinematografico: difficilmente un grande regista teatrale può ottenere immagini della stessa potenza ed efficacia. Viceversa il teatro esalta tutto ciò che si basa sulla parola scritta, a cominciare dai dialoghi o i monologhi: io mi sono formato in questa scuola».
Come nasce il Mamet speak?
«Non ho mai sopportato i dialoghi che preferiscono essere eleganti o raffinati invece di essere realistici.
Nello sforzo di cercare la verità sono stato premiato dalla constatazione che il realismo può avere un’autentica musicalità. Per quanto riguarda la violenza e la scurrilità nascono da un’esperienza familiare: prima che avessimo la televisione, ci sfidavamo dialetticamente e finiva per vincere chi usava il linguaggio in maniera più dura, a volte cattiva».
Lei ama citare Mark Twain, il quale sosteneva che per capire gli uomini bisogna dirigere un giornale di campagna.
«Aveva capito che è necessario guardarsi intorno e capire cos’è veramente la vita. Molta della migliore letteratura americana viene dal giornalismo: Theodore Dreiser, Willa Cather, Ben Hecht e lo stesso Twain, per non parlare di quel genio di Hemingway. Quasi tutti provengono dal Midwest e hanno scritto confrontandosi con le persone e i luoghi che descrivevano. Si sono sporcati le mani, cosa che non fanno coloro che scrivono su riviste snob cittadine e parlano al mondo elitario e conformista in cui vivono».