il Giornale, 8 giugno 2022
Biografia dei Bowles
Si odiarono a tal punto da sposarsi. Jane di cognome faceva Auer, era nata a New York da famiglia ebraica, abbiente, aveva fobie esorbitanti odiava i cani, non sopportava ascensori, ascensioni montane, giungle, era certa che sarebbe morta in un incendio. Una caduta da cavallo, quasi bambina, le spezzò la gamba, donando una sinistra sinuosità alla camminata; tutti ricordano il suo viso da bestia esotica, plateale fu la voracità. Paul Bowles, che all’epoca si dava, con generico successo, alla musica allievo di Aaron Copland, collaboratore di Orson Welles e Tennessee Williams capitò nella vita di Jane nel 1937. Lei aveva vent’anni, era vergine, e quando lui le cascò addosso, Jane gli disse: se mi vuoi, sposami.
L’episodio pare surreale, la quinta lo è di più: viaggio in Messico, Jane si aggrega a una truppa di olandesi amici di Paul. Parlano in francese, credono che la vita sia un corpo da martoriare, vogliono la fama, si pensano superiori alla Storia, sono stanchi di essere soli. Jane fin da subito avverte Paul: sono lesbica. Lui coglie la rivelazione come qualcosa di gratificante: vissero, per lo più, da fratelli, speculari, irritabili. «Siamo tanto incompatibili che dovrebbero rinchiuderci in un museo», diceva Jane. «Ci siamo sposati nel 1938, non avremmo potuto vivere insieme senza sposarci. Jane, poi, era vergine... ma tanto divertente che pensai che sarebbe stato fantastico stare con lei tutti i giorni», confessava Paul. «Jane amava tornare alle tre di mattina... che non dormisse con altri uomini, devo dire, mi tranquillizzava». Quando Peggy Guggenheim pretese Jane, Paul Bowles gliela regalò. Amava farsi raccontare da Jane la ridda delle sue avventure erotiche, contraddistinte da un’aggettivazione al vetriolo. I suoi pettegolezzi erano una specie di assolo assoluto, pieno di sfingi. Paul Bowles, dal canto suo, era un esteta del disastro e della dissipazione, riteneva il vizio una virtù e gli abissi dell’animo umano li osservava con millimetrica sagacia dall’attico, non certo dal sottosuolo.
Per intenderci: Jane è la Kit de Il tè nel deserto, interpretata, nel film di Bernardo Bertolucci del 1990, da una vaga Debra Winger. Nelle fotografie che mentono sempre Jane muta spesso viso. In alcune immagini sembra una Audrey Hepburn cresciuta in Amazzonia; in altre ha la feroce indifferenza di una dea egizia; in altre ancora è abbrutita dall’oppio. In una fotografia del 1947, scattata da Irving Penn, Paul Bowles si sorregge a un tavolo circolare, sta cadendo, ha uno sguardo sperso, spaurito; Jane, al centro, è aggrappata al braccio destro del marito, di fianco a loro, distante, in posa dandy, il designer Oliver Smith, amante di entrambi.
Jane scrisse un unico romanzo, pubblicato da Knopf nel 1943, Two Serious Ladies (in Italia è edito da Bollati Boringhieri e da La Tartaruga). Il romanzo fu celebrato con turbine di osanna dagli amici dei Bowles, Truman Capote («È una delle stiliste pure più originali della nostra letteratura»), Tennessee Williams («Finalmente abbiamo scoperto il più importante scrittore in prosa delle moderne lettere americane»), John Ashbery («Uno degli scrittori più raffinati che mi sia accaduto di leggere»). Scrisse poco altro: un testo teatrale, In the Summer House, che andò in scena a Broadway nel 1953, e una serie di racconti. I suoi Collected Writings sono radunati al 288 della Library of America quelli del marito sono stivati in due tomi, il numero 134 e il 135. In Italia Racconti edizioni ha raccolto i suoi testi come Piaceri semplici (pagg. 240, euro 17, traduzione di Paola Moretti). Il racconto più bello è ambientato in una «città blu musulmana», s’intitola È tutto bello, è una specie di manifesto del delirio esotico: il finale il muro delle case che si muta nel «volto di un clown che le aveva risvegliato un certo desiderio» è da studiare a memoria. Di solito Jane Bowles mette il bisturi tra gli sbagli quotidiani, distilla l’agonia da uno spiraglio, deduce una crisi dalle piccole cose: è più brava, per chi ama il genere, di Raymond Carver.
Il suo stile, leggero come l’acqua e duro come un chiodo, diventò moda: essere come Jane Bowles significava interpretare un misterioso mostro tra Holly Golightly (quella di Colazione da Tiffany) e Medusa. Editando i testi della moglie, Paul Bowles tornò a praticare in prosa: dal 1945 comincia a pubblicare racconti La delicata preda è del 1950 mentre nel 1949 stampa il primo romanzo, Il tè nel deserto. I Bowles si erano trasferiti a Tangeri nel 1947: una specie di casino a cielo aperto, dove la lussuria era libera e lussuosamente sanguinaria. «Il piacere che i marocchini traggono non è, come credono gli infedeli, sessuale: è l’opportunità di infliggere al cristiano bianco un insulto definitivo», scrive Bowles, che va in estro per Ahmed Yacoubi, un sedicenne. Ne seguiranno altri. Jane si accompagna, invece, a Cherifa, cantante, mascolina, che la schiavizza. «Cherifa va sempre in giro con un coltello, al fine di castrare qualsiasi maschio le capiti a tiro. Non ho mai incontrato prima una donna che odiasse gli uomini a tal punto». Severa, occhiali scuri, celata da un velo nero, Cherifa pareva un monolite, terribile; diede a Jane ciò che Jane desiderava: il dolore.
I begli anni a Brooklyn Heights erano ormai leccornia languida. Nell’inverno del 1940-41 avevano vissuto insieme, in assurda comune, promiscua, i Bowles, Benjamin Britten e compagno, Peter Pears, Golo Mann il figlio di Thomas, il romanziere Richard Wright e Carson McCullers. A tenere a bada la truppa, Wystan H. Auden, che abitava lì con l’amante, Chester Kallman. «Era sempre pieno di gente: Auden pagava i domestici, si occupava del cibo, mandava avanti questa stramba cooperativa», ricorda Paul. «Auden non tollerava i litigi durante il pasto; esercitò su Jane un fascino particolare, lei si offrì di fargli da segretaria. Tutti i giorni si svegliava alle sei e insieme lavoravano per circa tre ore».
Nel 1957, a 40 anni, Jane fu straziata da un ictus. Incapace di creare, abulica, transitò per diversi ospedali e ricoveri, prima di morire, in una clinica di Malaga, nel 1973. Affascinato da Borges, forse Paul pensava che con Jane sarebbe morto il suo vero io. Continuò a scrivere, ad amare con moderazione, a vivere a Tangeri. Più vecchio di Jane di sette anni, campò fino al 1999; tentò di perdersi in un arcano mefistofelico, che lo rigettava, nella luce africana, solida come la pietra ma infine impermeabile.
In punto di morte, Jane non si lasciò scappare l’ultimo colpo di teatro. Si convertì. Forse aveva esaurito tutti gli dèi, forse era un modo per dileggiare i propri genitori, la gente e la genia e l’utopia di Tangeri. Fu sepolta, per suo volere, in un cimitero cattolico. Paul, che riteneva incredibile quel credo, si rifiutò di adornare la tomba con una croce. Così la tradì o le fu fedele, chissà.