La Stampa, 8 giugno 2022
Il dente di Lumumba
Gérard Soete lo definì «un normale trofeo di caccia» e assicurò di non provare rimorso per essere stato uno degli aguzzini che trucidarono Patrice Lumumba il 17 gennaio 1961. Il belga, poliziotto di stanza in Katanga, rivelò in seguito di aver fatto personalmente a pezzi («34», precisò) il corpo del primo capo di governo democraticamente eletto in Congo, per poi discioglierlo nell’acido così che non ne restasse traccia. O quasi. Dai numerosi e spesso contraddittori racconti di quella serata di orrori è emerso che il gendarme fiammingo conservò almeno un dente d’oro, forse due, insieme con qualche altro frammento osseo, pare una falange, souvenir trionfali per il peggiore dei colonialismi. A un certo punto giurò di non aver conservato nulla e che il dente era finito nel Mare del Nord. Falso, almeno questo. La reliquia è riapparsa nel 2016 a casa della figlia del carnefice e ora, dopo un lungo e inquietante confronto politico a Bruxelles, sta per tornare agli eredi di Lumumba. Per far calare il sipario su una triste danza macabra, essere sepolta, e provare a dar pace alla memoria. Cosa che solo i più ottimisti possono sperare di veder succedere in un orizzonte ragionevole di tempo.
Il Belgio ha impiegato quattro decenni per scusarsi dell’assassinio del politico congolese. Non è servito a calmare gli spiriti, non si poteva cancellare con un colpo di spugna il genocidio perpetrato per oltre un secolo da re Leopoldo II e dai suoi eredi, le colpe di un sistema arricchitosi dal XIX secolo con il furto spregiudicato delle risorse del cuore tenebroso dell’Africa, la discriminazione più brutale e il massacro sistematico di quasi dieci milioni di esseri umani. La tensione è rimasta, alimentata da crisi, incomprensioni, violenze, ruberie e sfruttamenti.
Solo lo scorso anno il re Filippo, erede non in linea diretta di Leopoldo, ha finalmente comunicato il «profondo rammarico» per le crudeltà di cui s’è reso responsabile il suo Paese in quelle terre di meraviglie. In febbraio, il governo ha accettato di discutere la restituzione alla Repubblica democratica del Congo di 84 mila oggetti predati in passato. Gesti simbolici nel nome di un nuovo difficile inizio. Nel quale gioca un ruolo anche il piccolo dente ingiallito che, sfuggito all’acido, testimonia il male che l’uomo sa fare all’uomo. Chiuso in una piccola teca, il 20 giugno passerà dalle mani del premier De Croo a quelle degli eredi dello statista. Di lì, si tenterà la via della riconciliazione.
L’addio dei belgi al Congo avvenne troppo tardi e troppo presto. Attesero a lungo, più di altri, prima di rinunciare al forziere di tesori che aveva fatto la ricchezza dell’establishment di un piccolo Paese senza montagne, con una storia di unità relativamente breve e certo fragile. Uscirono di fretta, almeno ufficialmente. Non preparano adeguatamente il dopo e non lasciarono la presa davvero. Quando il 30 giugno 1960 ci fu il passaggio di consegne, il discorso del giovane re Baldovino ruotò intorno ai benefici del colonialismo, arrivando a elogiare «il genio di re Leopoldo», in realtà architetto di un massacro seriale degno delle peggiori orde.
Patrice Lumumba, 35enne nativo del Kasai, profeta dell’indipendenza, anima del movimento panafricano, eletto da poco alla guida del governo, gli rispose a muso duro con un intervento non programmato. Accusò le atrocità della dominazione belga, disse che quanto era stato fatto nel Paese non era certo merito degli europei, quanto del sangue e della forza di gente che «mai dimenticherà che l’indipendenza è stata raggiunta combattendo giorno dopo giorno», con «uno sforzo giusto e nobile per porre fine a una schiavitù umiliante».
Non fu però la sfida ai reali a farlo cadere. La reazione dei giornali europei al suo «velenoso attacco» fu nulla rispetto al complotto internazionale subito ordito ai suoi danni. La condanna a morte di Lumumba, l’uomo che sapeva far sognare chi lo ascoltava, fu firmata quando la scelta di neutralità politica parve ai soliti noti di Washington l’avvio di un possibile sodalizio con la Russia.
Neanche una settimana dopo l’indipendenza, i militari erano in rivolta, provocando l’intervento militare belga. Lumumba volò di persona alle Nazioni Unite, senza trovare il sostegno necessario, se non di facciata. Il 9 agosto 1960 fu costretto a proclamare lo stato di emergenza. Poco più di un mese dopo fu rimosso dall’intervento del colonnello Mobutu, che dal 1965 guiderà il Congo per trentadue più che controversi anni. A quel punto nessuno avrebbe scommesso un franco sul premier. A ragione.
Arrestato, Lumumba fu condotto in Katanga nel gennaio 1961. La sera del 17, a Elisabethville, fu torturato da una squadraccia di locali e belgi. Finì davanti al plotone di esecuzione, in piedi, le spalle a un albero, coi suoi più stretti collaboratori, uccisi uno alla volta, in un rito satanico destinato ad assumere i contorni della letteratura, se è vero che un ministro del Katanga si arrogò l’onore di averlo trafitto con una baionetta, mentre un mercenario (nazista) britannico si attribuì il colpo di grazia. Il premier che fu ucciso almeno tre volte finì in una fossa comune, ma per una notte appena.
La mattina dopo ecco il quarantenne Gérard Soete in chiara uniforme, armato di pala e sega. Riesuma il cadavere, con una sega lo scompone (34 volte, ricordiamo) e lo getta nell’acido, salvo il dente (i denti) e la falange (forse). Nessuno dice niente sino a metà febbraio quando la notizia diventa pubblica. Versione ufficiale: ha cercato di scappare, gli hanno sparato, ci spiace. Fine della (promessa) bella stagione.
L’inchiesta che seguì fu ridicola. Nessuna responsabilità per i belgi e la corona. Ovviamente, nessuna per la Cia. Nessun colpevole, nemmeno gli auto-confessati. Nel 2002 le prime scuse, poca roba. Negli ultimi due anni qualche tentativo più serio, finalmente. In tempi di «cancel culture», che se applicata alla lettera farebbe sparire una grossa porzione di Belgio, re Filippo e il governo De Croo ritentano. Lo chiedono la politica, l’economia e la coscienza. Il dente d’oro torna a casa, senza la prova del Dna, rifiutata «per non danneggiarlo». L’uomo a cui è stato strappato rappresenta oggi le ambizioni migliori di un Congo in mezzo a un guado. Il Belgio tende la mano, ma lo sente ancora scomodo. Nel 2018 è stato proposto di dedicargli uno slargo a Matonge, quartiere «africano» della capitale belga, ma il consiglio comunale di Bruxelles la ha bocciato. La statua è stata inaugurata nella municipalità confinante. Questione di metri. Simbolo per simbolo, si potrebbe anche ripartire da qui. Da Piazza Lumumba per tutti. E allora anche il dente d’oro potrebbe fare la sua parte.