La Stampa la Repubblica, 7 giugno 2022
In morte di Gianni Clerici
Stefano Semeraro per La Stampa
Da giovani volevamo essere Gianni Clerici. Possederne il tocco, la leggerezza mista alla profondità che hanno solo i fuoriclasse. Volevamo capire il segreto del ritmo, della luce che usciva dai suoi pezzi, tanto simile a quella irrequieta e variabile di questi giorni sopra Parigi, sopra il nuovo Roland Garros, sciccosissimo, moderno, una chicca da archistar - che poi chissà se gli sarebbe piaciuto.
Per lasciarci orfani, noi tutti innamorati fradici di tennis, Gianni ha aspettato che Nadal disegnasse un altro pezzo di storia nello spazio che era stato dei quattro Moschettieri francesi, Lacoste & Co, e soprattutto della Divina Lenglen, la sua Lenglen, a cui aveva dedicato anni di vita e di ricerche condensati in una magnifica biografia. Poi se ne è andato a 91 anni, con un gesto silenzioso, bianco, scivolando con la solita classe nella storia che lui stesso ha contribuito a scrivere. È stato un ottimo tennista, Gianni, compagno di doppio di Pietrangeli, Gardini e Sirola, sfiorando la Davis, negli anni in cui a Wimbledon si andava in Topolino, sperando di essere ammessi al Tempio. Alla conoscenza pratica del gioco aveva aggiunto quella storica e tecnica, compulsando il suo amato Scaino da Salò, il primo teorico del "Giuoco"; o passando giornate nella biblioteca del British Museum per comporre, giovanissimo, 500 Anni di tennis, Bibbia ineludibile per chiunque ami il tennis che gli è valsa un posto, unico italiano insieme a Nicola Pietrangeli, nella Hall of Fame, l’arca della gloria del tennis a Newport.
Da giornalista aveva debuttato diciottenne su Il Tennis Italiano, storica rivista di settore. Gianni Brera, direttore della Gazzetta dello Sport, ne aveva intuito subito il talento, facendolo scrivere anche di sci, di calcio, di altri sport. Era poi passato all’indimenticabile redazione del Giorno di Italo Pietra - Brera, Clerici, Fossati, Signori, solo purosangue a cui da ragazzi ci si abbeverava - prima di approdare a Repubblica. «Res Publica Clerici vagantes» scriveva sul cartoncino segnaposto in sala stampa, e quello si sentiva, giocando con il proprio cognome. Non un chierico traditore, alla Julien Benda, ma un amanuense raffinato, devoto e insieme disincantato, con una dose di Nabokov, una di Arbasino, suo ex compagno di classe, e molte di Evelyn Waugh - il suo vero doppio - capace di scovare e tramandare storie, di riconoscere le reincarnazioni del Budda del tennis, da Hoad e Rosewall a Laver e Borg, dalla Graf a Sampras, a Federer, a Nadal. Non solo giornalista, però, ma un «buono scrittore», come si definiva senza falsa modestia; autore di pièce teatrali, di romanzi fortunati - la trilogia dei Gesti Bianchi, Cuor di Gorilla, Quello del Tennis, Una notte con la Gioconda - di poesie, di racconti. «Un articolo deve essere un po’ un teatrino», ti spiegava, lui che insieme a Rino Tommasi aveva creato la coppia televisiva più irresistibile e inimitabile dello sport, dialoghi e tempi comici degni di Neil Coward e Billy Wilder, raggiungendo anche chi di tennis non masticava troppo. Dottor Divago, come lo si chiamava per le continue distrazioni, i pezzi smarriti con sconforto inconsolabile nella memoria traditrice del computer; comunque maestro di competenza e stile. «Gianni magari si dimentica di dirti chi ha vinto», lo canzonava Tommasi. «Ma sa sempre spiegarti perché». E Gianni, ribadendo tutta la sua ironica ammirazione di diversissimo gemello: «Rino a volte si assopisce in telecronaca, poi si sveglia improvvisamente annunciando il punteggio: ed è quello giusto».
Per carpirgli i segreti del mestiere, oltre a quelli che dispensava con generosità a chi sentiva più affine, provavi a seguirlo nelle sue peregrinazioni fra i court, a Wimbledon come a Parigi, provare a ribattere qualche suo slice di servizio sull’erba spelacchiata del Kooyong - quando alle redazioni si poteva ancora spedire un fax con il pezzo di giornata e Internet ancora non esisteva - passargli accanto una serata sul Bund a Shanghai, a cena da Gallagher a New York, alla National Gallery a Londra, fra mostre e sedute d’asta (degli amatissimi futuristi o di un seicentesco Desubleo); o ancora appostarti nell’ascensore di Melbourne in cui, miracolosamente, ogni giorno incontrava qualche celebrità destinata a illuminare uno dei suoi pezzi. Che magari snobbavano la (cosiddetta) notizia di giornata, ma ti aprivano un mondo nel giro elegantissimo di una frase. Perché alla fine è vero - Josè Mourinho perdonerà la parafrasi - chi sa solo di tennis non sa nulla di tennis. E se Gianni è riuscito a raccontarla così bene, questa disciplina mistica e freudiana che si pratica con la racchetta e lottando contro se stessi, con infinita grazia, passione da archeologo e obiettività da entomologo, è perché ha saputo anche vivere: non al 5 per cento, ma al meglio dei cinque set. Dialogando con i campioni dello sport e con i grandi dell’arte, come i suoi mentori Mario Soldati e Giorgio Bassani, Luchino Visconti o Karen Blixen. Un talento di cui gli siamo grati, e riconoscenti. Nella quasi speranza di essere riusciti a imparare qualcosa, e nella certezza di non avergli mai fatto, se non altro, il torto di volerlo imitare. Perché di Clerici, sia chiaro, non ce ne saranno altri.
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Dario Cresto-Dina per la Repubblica
Gianni Clerici è stato una delle firme più seguite e inimitabili di un giornalismo romantico e prossimo alla letteratura quasi scomparso e sarà per questo motivo, quello di essere una delle ultime tigri bianche, che ha deciso di lasciarci in punta di piedi svanendo un poco alla volta. Gianni era un uomo elegante e buono che dissimulava i gesti d’affetto, perché considerava la discrezione il tratto migliore del valore. Orgoglioso di sé, possedeva la cinica onestà di chi è consapevole del proprio talento ma finge con studiata malizia di essere un cronista tra i tanti. Era un tennista che stava in campo con la gioia dei bambini nei cortili, perché è stato nello stesso modo dentro la vita. Ammirava i campioni educati e perfetti come Laver e Federer, Navratilova e Graf ma amava di più i folli e bisbetici come Pietrangeli e Nastase, Gerulaitis e McEnroe, Hingis e Schiavone. Quelli per cui vincere non è abbastanza, bisogna anche bruciarsi, buttarsi via perché la vita è una soltanto e, come diceva qualcuno, se si potesse riviverla andrebbero fatti gli stessi errori, però più in fretta.
Spesso nelle sue cronache ometteva apposta il risultato degli incontri a cui aveva fuggevolmente assistito, dettaglio che considerava quasi miserevole a fronte delle sue divagazioni e a volte dei suoi ghirigori eruditi. Coltivava passioni speciali per figure straordinarie che lui, sì proprio lui, aveva trasformato in leggende non solo in Italia narrandone le mirabili gesta. Di una, Suzanne Lenglen, ha scritto un libro con il passo del romanzo storico; su un’altra, Big Bill Tilden, stava pensando a una grande definitiva biografia alla quale ha dovuto rinunciare per mancanza di forze. Poi sono arrivate le sorelle Williams che hanno rivoluzionato la storia del tennis femminile e il suo cuore di vecchio scriba mai abbastanza indurito. Precipitandolo in un mondo a parte. Venus ne ha accelerato i battiti con la divina sensualità, Serena con la potenza sprigionata dai muscoli e dai fondamentali devastanti invidiati da molti maschietti, come avrebbe scritto Gianni.
Nell’ultimo anno ci sentivamoquasi ogni mattina, mi raccontava delle dita che non gli obbedivano più, del fisioterapista che lo torturava promettendogli che sarebbe tornato a camminare, di quanto fosse grato alla moglie Marianna (si chiama Annamaria, ma Gianni preferiva così per essere fedele a un loro antico incantesimo) che lo proteggeva minuto dopo minuto con il sacrificio che si dedica solamente ai grandi amori. Si conobbero a una festa goliardica che lui aveva organizzato per celebrare l’inutilità del matrimonio, un vincolo da piccolo borghesi che lo terrorizzava. Lei aveva ventiquattro anni, lui trentatré e furono per sempre uniti, un rovescio del destino, il suo colpo migliore.
Aveva smesso di viaggiare per tornei. Li sognava. I ricordi della vita, diceva, arrivano di notte, per non farsi acciuffare. Sogni ricorrenti nei quali vedeva se stesso preparare la valigia: i quaderni per gli appunti, i ritagli di vecchi giornali, la matita blu e quella rossa, la macchina per scrivere, la racchetta, il biglietto aereo per Londra. Wimbledon era la sua residenza preferita, il prato che si contendeva il primato delle radici con la casa dei padri a Como e la spiaggia di Alassio degli anni Trenta. Al mattino dei sogni rimanevano brandelli confusi e lui si trovava restituito a un’età che nessuno perdona, ma combatteva la gara ad armi impari contro il tempo senza illusioni ma con coraggio e ironia: scriveva per il giornale, dettando a volte al figlio Luigi, in altre occasioni a un collega della redazione sportiva, rispondeva con gratitudine alle telefonate degli amici e impegnava ancora il futuro in opere di recupero storico entusiasmanti e strane come il “Club delle Balette” che vuole riunire in una sola sede museale le 17 palline del Seicento trovate in Italia, sfere di cuoio riempite di stoffe e capelli con le quali gli aristocratici praticavano il tennis nelle chiese e nelle regge, quando il tennis era soltanto un gioco da mutandoni lunghi per le donne e giacche immacolate per gli uomini.
Ha scritto per il teatro, ci lascia una pinacoteca di discreto valore e invenzioni lessicali che per genio non sono inferiori a quelle di Gianni Brera. Gli è sempre piaciuto l’azzardo perché contempla l’eventualità della sciagura, ha cantato più di un miles gloriosus per il gusto di vederlo inciampare nella sua stessa vanteria. Sembrava un personaggio inavvicinabile, un principe vestito di cristallo cresciuto tra agi familiari e sicure finanze, era invece una persona semplice, carnale e fragile come il parroco di campagna di un suo libro, un prete bello che parlava in dialetto comacino e che si spogliò della tonaca per una passione d’amore. Ah, le passioni, diceva Gianni, sono le uniche cose con cui vale la pena scappare, non certo morire.
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Antonio Dipollina per la Repubblica
Quando c’erano Tommasi e Clerici in tv e il tennis era Tommasi e Clerici in tv per moltitudini di appassionati che oggi guardano tutto il tennis possibile, si divertono, ammirano i fuoriclasse e alla fine gli scappa un pensiero su quando tutto era iniziato, ovvero quando c’erano Tommasi e Clerici in tv. Opposti, certamente, perfetti, sicuro, lo yin e lo yang fusi perfettamente nel simbolo, le curve che combaciano. E che curve.
Clerici chiamava l’altro Compute- Rino, passione per numeri, statistiche, graduatorie come colpi a effetto che spiegavano tutto. Tommasi affibbiò a Clerici la storica gag-definizione: “Il dottor Divago”. E con maestria assoluta nel chiudere a rete la battuta spiegò: «Clerici magari non ti dirà chi ha vinto il match, ma ti spiegherà alla perfezione perché e come l’ha vinto».
Era iniziata nel 1981, nascente tv commerciale a marchio Fininvest e con Silvio Berlusconi che, da statuto, decideva tutto e si interessava di tutto. Tommasi mise in piedi la prima redazione sportiva del Biscione e poi si andò a caccia dei rari diritti liberi sul mercato. Ovvero, il tennis. Con Tommasi, nessun problema, ma a Compute-Rino, in pratica un algoritmo vivente d’epoca, piaceva assai quello che vedeva e ascoltava in America, doppie telecronache, due voci che aggiungevano show allo show, impensabile da noi. Oppure sì, perché Tommasi volle Clerici accanto e Silvio, che era una sorta di perfezionista intriso di luoghi comuni banalissimi – quelli che funzionavano con la gente che tornava a casa in tutta fretta perché li aspettava il Biscione – non era contento. Clerici, con quella vocina, ma perché? Tommasi resistette, forse gli mostrò pure qualche statistica. Alla fine vinse e fu, appunto, l’epopea del tennis in tv che era, oltre al tennis in tv, soprattutto Tommasi e Clerici alla tv.
Giocavano, quei due, nel modo più giocoso e serio con cui si può commentare uno sport che è centomila anni di storia ma è soprattutto lo smash di un secondo fa. Clerici, Dottor Divago, divagava, Tommasi chiudeva appunto a rete, si divertivano un mondo, erano lo show permanente, erano Broadway applicata alle telecronache. Ben presto si inventarono la sigla personale: ovvero loro due che canticchiavanoBongo, Bongo, Bongo
(pezzo americano, se ne trova una versione di Danny Kaye del 1948, tradotto in italiano per Nilla Pizzi ai tempi, cantata al cinema da Sophia Loren e infine resa celeberrima da Renzo Arbore and his Orchestra. Testo scorrettissimo, e se ci fossero stati gli impulsi woke di oggi sarebbe bastato opporre il traduttore italiano, il più che napoletano maestro Alberto Vurci, in arte Devilli, e chissà perché).
Il dubbio, ovvero la certezza, è che ogni singola telecronaca di allora potrebbe essere stenografata e diventare il capitolo di un libro imperdibile. Richiami, rimandi, citazioni, divertimento, come due ragazzi irresistibili, come un film. Il resto lo faceva la perfezione di yin e yang. Tommasi era meticoloso ed era quello del circoletto rosso, ossia segnava col pennarello i colpi migliori della partita per cavarne fuori gli hilights – e quelli del web sono tutt’ora convinti di aver inventato cose. Clerici era il fantasista da non fermare mai, qualunque fosse lo spunto, il ricordo che gli passava in mente in quel momento: e che divulgava alle genti consapevoli, e felici. E oggi divorate di nostalgia.
Nel 2002, era il 16 settembre, ilNew York Times uscì con una colonna che raccontava di una strana coppia di italiani al microfono, due che erano la realtà aumentata del grande tennis e che cantavano, scherzavano, raccontavano e al tempo stesso spiegavano tutto alla perfezione: “In confronto a loro – recitava l’articolo – John McEnroe è un personaggio appena appena vivace”.