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 2022  giugno 07 Martedì calendario

Le costituzioni nascono dalle guerre

Le guerre sono una gran brutta cosa. Ma ad esse, quantomeno ai loro effetti, dobbiamo, dalla seconda metà del Settecento in poi, gran parte delle costituzioni che ancor oggi ammiriamo. Dobbiamo le costituzioni, assai più alle guerre che alle rivoluzioni. È questa la tesi di Linda Colley ben argomentata nel saggio  Navi, penne e cannoni. Guerra, costituzioni e la formazione del mondo moderno in uscita oggi per i tipi di Rizzoli. La proliferazione di testi costituzionali dal Settecento ai secoli successivi, osserva l’autrice, è stata spesso analizzata in rapporto all’ascesa della democrazia e al fascino di concetti («soprattutto occidentali») ad essa legati. Conviene invece focalizzarci sul contributo dei ricorrenti conflitti che forniscono «una visione più completa e variegata» dell’insieme. E «introducono una gamma più ampia di territori e di voci» connessi, appunto, alla diffusione delle costituzioni.
Dopo il 1750, sostiene Colley, le ripetute guerre causarono nei continenti periodi di drammatica rottura che poi, quasi sempre, ispirarono la creazione di nuove e costruttive costituzioni politiche. Inoltre la guerra, i costi e gli oneri del conflitto costrinsero assai spesso Stati e sovrani a «fare gesti e concessioni su carta ai rispettivi popoli». Fino ai giorni nostri. Sì, anche nei trent’anni più recenti, quelli successivi alla fine della guerra fredda. Tenendo conto di quel che ha calcolato David Armitage in Guerre civili. Una storia attraverso le idee (Donzelli), e cioè che «in ogni singolo istante dal 1989 in poi sono state in corso venti guerre intrastatali in media da qualche parte nel mondo, soprattutto in Medio Oriente, Africa e Asia centrale». 
Questo ci aiuta a capire perché le costituzioni scritte sono state, sin dagli esordi, fenomeni per così dire «versatili». Hanno sempre assunto forme diverse e sono servite a molteplici scopi, scrive Linda Colley, e proprio questo «è stato il principale motivo del loro successo e della loro durata». Siamo abituati a legare le costituzioni alla parola «repubblica». E, in effetti, dalla metà del Settecento le costituzioni hanno preannunciato e contribuito alla nascita di repubbliche, tutte a modo loro rivoluzionarie: Corsica, Stati Uniti, Francia, Haiti.
Eppure, fa notare Colley, nel secolo che precedette la Prima guerra mondiale, alcuni dei più importanti testi costituzionali furono varate non da regimi repubblicani, bensì da differenti tipi di monarchie. Ad esempio la costituzione spagnola di Cadice (1812). Così anche quella belga del 1831. O quella giapponese del 1889. È vero poi che le costituzioni sono state in alcuni casi il prodotto di rivoluzioni contro gli imperi. Ma nel corso del XIX secolo e, «probabilmente in via residuale ancora oggi», importanti costituzioni «hanno anche contribuito alla creazione e alla conservazione degli imperi». È stato il caso degli Asburgo in Austria con l’Ausgleich del 1867. O di imperi pur più effimeri (ma non meno rilevanti per il discorso che qui ci interessa) come quello di Napoleone. 
Tornando al discorso del rapporto tra costituzioni e conflitti armati, è indubbio che la Prima guerra mondiale fu una grande generatrice di questo genere di testi. Un’affermazione come questa – osserva Colley – spesso viene rigettata con la motivazione che, così formulata, fa correre il rischio di «rimpicciolire» la misura in cui idee e tendenze che avrebbero portato ai testi costituzionali erano già «in movimento» prima del 1914. Effettivamente, riconosce l’autrice, il socialismo, i sindacati di ispirazione socialista e i movimenti che si battevano per le riforme sociali erano in ascesa in diversi Paesi e continenti molto prima dello scoppio della Prima guerra mondiale. Come lo erano anche le campagne femministe e l’attivismo anticolonialista.
Però, puntualizza Linda Colley, le tensioni, i traumi, la crescita di attività belliche successive al 1914 (tensioni, traumi e crescita di azioni militari «senza precedenti») furono d’enorme importanza perché approfondirono e promossero le critiche ai sistemi politici esistenti. Livelli di conflitto ineguagliati – assieme all’esigenza di una sempre più ampia varietà di combattenti e di lavoratori – sortirono l’effetto di plasmare le opinioni di influenti personalità che fino a quel momento «avevano difeso sistemi di esclusione sulla base di etnia, reddito, classe, religione o genere».
Va poi notato come nel primo dopoguerra, malgrado il fallimento di molte costituzioni e l’entrata in scena di una nuova leva di leader autoritari, non si assistette ad alcun «disincanto a lungo termine per il progetto di mettere nero su bianco – in un testo singolo e pregno di significati – indicazioni per gli Stati, i governi e i diritti». Allorché poi la Seconda guerra mondiale scosse nuovamente gli Stati e i popoli di tutto il mondo, accelerando il crollo degli imperi marittimi dell’Europa occidentale, «la stesura di costituzioni avanzò a passo ancora più spedito». La fine ufficiale della guerra nel 1945 fu seguita da un picco nella formazione di nuovi Stati nazionali, prima in Asia e poi, dalla metà degli anni Cinquanta, in Africa. Ciò che portò a un vero e proprio boom delle costituzioni politiche. Anche la crescente incidenza di guerre civili contribuì in quegli anni a far lievitare ad un livello mai visto il tasso di stesura di costituzioni. Dopodiché, come è noto, la dissoluzione dell’impero sovietico al termine della guerra fredda ebbe come conseguenza la nascita o rinascita di quindici Paesi apparentemente indipendenti nell’Europa dell’Est, in Asia centrale e in Transcaucasia. E ognuno di questi Stati creò immediatamente una nuova costituzione. Guerre su guerre, calde o fredde, hanno avuto sempre un identico esito: nuove costituzioni. 

D’accordo. Ma come inserire in questo quadro il «caso a parte» del Regno Unito che, come si sa, non dispone di una costituzione scritta? La Gran Bretagna ha supplito a questa «assenza» sviluppando il genere letterario della «storia costituzionale». Una strategia «che aveva l’ulteriore vantaggio di sfruttare la corposa industria tipografica inglese con le sue reti sparse per il mondo». Tra gli anni Venti dell’Ottocento e gli anni Venti del secolo successivo, la pubblicazione di nuove storie costituzionali della Gran Bretagna da parte di tipografie di Londra, Oxford e Cambridge crebbe di quasi venti volte. «Incapaci o riluttanti a ideare e presentare una formale costituzione scritta», afferma Linda Colley, «i giuristi, polemisti e politici britannici ricorsero invece volutamente a un’altra forma di pubblicazione: storie patriottiche, ampiamente diffuse ed esportate, della loro reale e immaginata costituzione politica». E in questo modo fecero scuola anche in campo costituzionale.
Questa «particolarità» britannica conferma in un certo senso la ragione per cui le costituzioni scritte siano diventate progressivamente «una norma e una consuetudine a cui gli Stati difficilmente potevano resistere». O che, quantomeno, non potevano permettersi di ignorare. E conferma anche come questi dispositivi politici siano spesso legati alla «parola stampata». Anche se, aggiunge Colley, «proprio questa relazione con la stampa contribuì a far sì che, per quanto sempre al servizio del potere, le costituzioni siano state anche creazioni volatili e imprevedibili». Ha scritto Benedict Anderson in Comunità immaginate. Origini e fortuna dei nazionalismi (Laterza) che la costituzione scritta «si dimostrò un’invenzione per cui era impossibile ottenere un brevetto». In che senso? Nel senso che, come altre opere stampate e come tanti romanzi del Sette Ottocento «divenne soggetta a saccheggi da parte di mani assai diverse». E «a volte inaspettate». 
Poiché sono spesso esaminate attraverso l’ottica di singoli sistemi giuridici e di sentimenti patriottici, le costituzioni vengono di norma analizzate in relazione alle specifiche singole nazioni. Quando sono state viste invece come genere politico contagioso, in grado di varcare confini terrestri e marittimi, questa particolarità è stata generalmente ascritta all’impatto di rivoluzioni, non delle guerre.

In particolare la nascita di costituzioni scritte è stata attribuita al successo della Rivoluzione americana dopo il 1776 e all’impatto delle altre rivoluzioni che la seguirono: la Rivoluzione francese del 1789, quella che sfociò nella Rivoluzione haitiana subito dopo e le rivolte che scoppiarono negli anni Dieci dell’Ottocento nelle ex colonie spagnole e portoghesi in Centro e Sudamerica. Poiché il loro esordio è strettamente legato a celebri rivoluzioni, l’essenziale forza motrice delle nuove costituzioni è spesso esaminata in modo parziale. La loro genesi e la crescente popolarità sono considerate concomitanti alla nascita del repubblicanesimo e al declino della monarchia. Talché vengono associate all’inarrestabile crescita degli Stati nazionali e all’inesorabile progresso della democrazia. 
Ci piace pensare «che le rivoluzioni siano fenomeni intrinsecamente più belli e costruttivi delle guerre». Ma – come fu già chiarito da Robert R.Palmer in L’era delle rivoluzioni democratiche (Rizzoli) – lo spartiacque tra queste espressioni di violenza umana di massa (la rivoluzione da una parte, la guerra dall’altra) è spesso incerto. E lo fu sempre più dopo il 1750. Le rivoluzioni americana e francese, e quelle che ad esse succedettero ad Haiti e in Sudamerica, furono tutte alimentate e accelerate da fasi di guerre transcontinentali. Lo ha spiegato Theda Skocpol in Stati e rivoluzioni sociali. Un’analisi comparata di Francia, Russia e Cina (il Mulino). La guerra divenne essa stessa rivoluzione. Oltretutto, anche prima del 1776 e della Dichiarazione americana d’indipendenza, guerra e creatività costituzionale stavano diventando estremamente e visibilmente intrecciate.

In alcune parti del mondo, nei primi del Settecento, si verificò forse una diminuzione del «numero totale» di conflitti armati. Ma nel Settecento aumentò in modo considerevole la regolarità con cui nel mondo scoppiarono guerre su larga scala. Divennero più frequenti le cosiddette «guerre generali». Vale a dire che si verificò un aumento dell’incidenza dei conflitti come la guerra dei Sette anni (1756-1763) le guerre rivoluzionarie e napoleoniche (1792-1815) e la Prima guerra mondiale (1914-1918). Si potrebbe obiettare che la guerra dei Sette anni a metà del Settecento non ebbe carattere «mondiale», quantomeno in senso stretto. Ma Winston Churchill nella sua Storia dei popoli di lingua inglese (Rizzoli) ha ben spiegato che essa ebbe in realtà un carattere planetario per la misura senza precedenti con cui la violenza e le sue ripercussioni toccarono più continenti.
Tutte queste guerre «furono non solo enormemente costose in termini di vite umane e denaro, ma, superando mari e terre, si estesero anche a diverse regioni mondiali, inglobando ed esacerbando al contempo molteplici conflitti locali, che divennero perciò ancor più pericolosi e perturbatori». Le date convenzionali occidentalizzate di queste «guerre generali» – testé indicate – sono in realtà ingannevoli perché per molti dei protagonisti coinvolti lo scontro armato iniziò ben prima delle date canoniche. O durò assai di più. 
Il ritmo e le dimensioni crescenti dei conflitti dal 1700 in poi contribuirono inoltre a rendere progressivamente più letali le tecniche belliche. Per quanto riguarda la guerra marittima, il processo era già evidente a partire dalla metà del Seicento. Nell’Ottocento, soprattutto dopo il 1850, anche la guerra terrestre divenne rapidamente più meccanizzata e con effetti più micidiali. Questa combinazione di guerre più ricorrenti e su scala più estesa con metodi bellici più letali proseguì fino alla metà del XX secolo. Quando ormai il possesso o l’aspirazione ad una costituzione scritta erano diventati norma. Dappertutto.