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 2022  giugno 07 Martedì calendario

Intervista all’egittologo Christian Greco

Christian Greco, egittologo di fama internazionale, direttore del più antico Museo egizio al mondo, quello di Torino. Parla italiano, olandese («la mia lingua di riferimento»), inglese, tedesco e francese («queste due meno bene»), arabo («qualcosina»), le lingue antiche greco e latino (sette anni a insegnarlo nei licei classici olandesi per 1.200 euro al mese) e le lingue dell’antico, del medio e del neo egiziano. 
Charles Dickens diceva «in the morning eat the frog», al mattino ingoia la rana. Nelle sue interviste le chiedono sempre se è vero che ha fatto il portiere di notte negli alberghi per realizzare il suo sogno. Gliela cambio: è vero che l’albergo era proprio l’Ibis? Una divinità egizia... Caso? Destino? Libero arbitrio? 
«È vero, ma fu del tutto casuale, anche se l’egittologia mi aiutò molto: ero già in Olanda e cercavo dei lavoretti per mantenermi allo studio a Leida. Vidi che in un albergo vicino alla città cercavano del personale per le pulizie, mandai il mio curriculum, ma la fortuna volle che il direttore fosse in effetti un appassionato di Egitto. Mi prese per il ruolo di portiere e poi passai anche al front desk». 
Una fortuna fare il portiere? 
«Sì fortuna, fu molto formativo e ancora oggi ne colgo i frutti nel mondo del lavoro: stare al front desk di un hotel mi ha insegnato cosa vuole dire essere al servizio del cliente e oggi tendo a dire che il visitatore ha ragione quando si lamenta e va ascoltato». 
Altra rana... è vero che quando l’hanno proposta alla direzione del Museo egizio, a 38 anni, hanno detto: «Abbiamo trovato una persona molto competente ma è troppo giovane»? 
«Non lo so onestamente, ma subito dopo la nomina si disse in effetti che avevo “solo” 38 anni. A me fa piacere ricordare che anche il grande Ernesto Schiaparelli quando arrivò qui al Museo di Torino nell’Ottocento aveva 38 anni... è una modalità che c’era in Italia per non dare delle possibilità a chi le meritava, ma le cose sono cambiate molto in questi ultimi anni». 
Tanto per parlare di merito: arrivato in Olanda per l’Erasmus non parlava l’olandese. E lo imparò in poche settimane. 
«Partii per sette mesi e rimasi 17 anni. Prima di partire, era il 7 gennaio del ‘97, scrissi un’email al professor René Van Walsen. Oggi è un grande amico, ma al tempo mi raggelò: andai da lui per dirgli che volevo seguire i suoi corsi, ma mi rispose che ero in ritardo di un semestre e che, per giunta, il corso era in olandese. Uscii di lì e andai a iscrivermi a un corso di otto ore al giorno. Dopo 3 settimane presi 9,5 su dieci all’esame di olandese». 
Partendo da zero? 
«Conoscevo un po’ di tedesco, mi aiutò». 
Complimenti. 
«Premesso che ancora oggi quando qualcuno mi fa un complimento riemerge il mio complesso dell’impostore, sono molto felice quando i ragazzi mi dicono che la mia vita può essere stata di esempio. Credo che vada comunicato di più: non esiste il successo immediato, nessuno parla più di fatica. A me fa piacere ricordare che il primo lavoro pagato da egittologo l’ho avuto a 34 anni e che per raggiungere un obiettivo bisogna faticare ogni giorno. E non è nemmeno detto che arrivi». 
Si sente inadeguato nonostante tutti i risultati raggiunti? 
«Sì profondamente, ho il senso molto socratico di inadeguatezza: è un qualcosa che da un certo punto di vista mi rende la vita più difficile: è molto più facile essere sicuri di se stessi» 
Bertrand Russell diceva che il problema del mondo è che gli intelligenti hanno sempre dubbi, gli stupidi mai. Ma lei ha un riconoscimento unanime: le hanno anche chiesto una consulenza sul Museo della Fifa e non segue il calcio... 
«È vero, non ne so molto di calcio». 
Huxley coniò il termine «agnostico» per salvare Charles Darwin da chi lo accusava di ateismo. Calcisticamente parlando lei è agnostico o ateo? 
«Agnostico, me la cavo anche io così. Ciononostante sono andato a Zurigo assieme alla mia presidente Evelina Christillin e devo riconoscere che sono stati due giorni molto interessanti. Una volta sempre lei mi ha lanciato anche nella tana dei “lupi”, un evento della Lega Calcio, ma ho parlato della Tomba di Kha». 
Un museo che sogna di dirigere dopo Torino? Il Cairo? 
«Per me Torino è il nonplusultra e quando mi cacceranno ci penserò ma mi ritengo estremamente fortunato e felicissimo di essere qui». 
Un sogno o un progetto? 
«L’ingresso gratuito, come al British Museum. Ci stiamo già pensando, magari per il bicentenario del 2024». 
Il museo del futuro sarà aperto a tutti? 
«Io penso al museo del futuro come a qualcosa di completamente diverso. Oggi, soprattutto in Italia, li consideriamo degli hub turistici, una panacea dei disastri economici del nostro Paese. Ma hanno un ruolo potenziale molto più importante: i musei sono posti di avanguardia per rimuovere quegli ostacoli che impediscono la formazione dell’individuo. Qualcosa la facciamo già adesso, come la formazione per i nuovi residenti. Io non voglio parlare di emigrati perché il termine nuovi residenti cambia la prospettiva: fornisce uguali diritti e doveri e una casa comune. D’altra parte il museo è già il luogo di un altro, di cui siamo ospiti rispetto a una civiltà lontana con diversi punti di vista rispetto ai nostri: siamo tutti residenti temporanei in un luogo che esiste da più tempo di noi. Siamo residenti pro tempore, tutti». 
Terza rana di Dickens. Questo le ha creato anche una feroce polemica da parte di Giorgia Meloni quando lanciò la campagna «fortunato chi parla arabo». Vi siete mai riparlati? 
«No, ma spero di avere presto l’opportunità di poterla incontrare. Anzi, la vorrei accogliere nel museo e vorrei fare una chiacchierata con lei tra di noi e non in pubblico. Penso che l’ascolto sia fondamentale perché oggi più che mai corriamo il rischio di chiuderci in bolle dove ci confrontiamo solo con persone che hanno lo stesso sentire. La voce anche critica di chi la pensa in maniera diversa è fondamentale». 
La politica l’ha mai cercata? Le piacerebbe? 
«Non mi interessa. Come ho detto ho già la sindrome dell’impostore nel fare il mio lavoro, figuriamoci nel farne un altro che non è il mio». 
Lei ha da poco pubblicato un articolo scientifico dove grazie ai reperti della Tomba di Kha, unico corredo intatto del nuovo Regno conservato fuori dall’Egitto, e grazie alla tecnologia e alle conoscenze dell’Università di Pisa avete scoperto gli antichi odori dell’Egitto. Musei con reperti di migliaia di anni fa e tecnologia vanno d’accordo? 
«Certo, io penso a tre musei. Quello fisico ma insostituibile che, come detto, dovrebbe essere aperto a tutti. D’altra parte dovremmo ricordare che non siamo dei custodi e tutto appartiene alla res pulica, ovvero a tutti i cittadini. Poi penso a un museo virtuale. Le potenzialità sono enormi. Si dice sempre che con dieci milioni di visitatori al mondo il Louvre è il più visitato al mondo. Ma allo stesso tempo ogni anno esclude oltre 7 miliardi di persone. Per questo ha senso, secondo me, un museo virtuale che non sia il surrogato del museo fisico. Un’esperienza del tutto diversa, con anche dei curatori digitali». 
Non mi dica che il terzo è nel metaverso... 
«Sì e ci credo fortemente, un museo nel metaverso come processo epistemologico: pensi cosa potrebbe significare per un archeologo ricreare un ambiente del mondo antico dove poter vedere l’evoluzione di un sito e dove ambientare e collocare dei reperti. Sarebbe un museo impossibile da avere nella realtà fisica». 
Cosa ci insegna l’egittologia? 
«Che diamo al presente un eccessivo valore. È rassicurante vedere come certe categorie che diamo come consolidate in realtà sono nate tanto tempo fa. La Bibbia per gli egittologi è un libro di Barry Kemp: Ancient Egypt, Anatomy of a Civilization, in cui parla dei rituali di passaggio nell’età del bronzo, del consolidamento dello stato burocratico. Tutto questo ha una valenza ancora oggi. In definitiva, nonostante la tecnologia, siamo fragili: la malattia, la morte, la separazione. Siamo esattamente come gli antichi egizi. Se leggiamo i loro testi troviamo, se non le risposte, le stesse domande. È utopistico pensare di avere le risposte definitive su tutto ciò che ci angoscia». 
Lei parla anche l’egiziano antico. Ma come possiamo conoscerne i suoni? 
«Stiamo festeggiando il bicentenario della decifrazione dei geroglifici – avvenuta il 27 settembre del 1822 – grazie a Jean-François Champollion (che, per inciso, lavorò anche al Museo di Torino, Ndr). Fu un momento eccitante in cui corse dal fratello per dire che aveva trovato la chiave. In molti in realtà si stavano avvicinando all’idea che il coopto fosse l’ultima evoluzione di quella antica lingua e che per il 60 per cento era ancora formato da vocaboli antichi, ma scritti con l’alfabeto greco più 7 lettere per coprire suoni che il greco antico non aveva. Per decifrare la stele di Rosetta fu determinante che fosse scritta in geroglifico, demotico e greco. Vedere in greco il termine basileus e poi Ptolemaios permise di identificare dove in corrispondenza nel testo geroglifico dovevano essere identificati gli stessi epiteti. È una lingua fonogrammatica e non ideogrammatica. In poche parole sono suoni. Il problema è che ci sono solo consonanti e semiconsonanti. Dunque la domanda è: quali altri suoni c’erano? Difficile dirlo: per questo usiamo la cosiddetta pronuncia egittologica mettendo la  schwa tra due consonanti per poter pronunciare il suono». 
A proposito di suoni: come mai Christian? 
«I miei genitori italiani volevano un nome inglese e devo dire che, dati i tanti contatti all’estero, mi ha molto aiutato». 
Questo, forse, si chiama destino.