il Fatto Quotidiano, 6 giugno 2022
L’Iran è in crisi
Nelle piccole città dell’Iran la gente muore di fame. Solo a Teheran, e in altre grandi città, la popolazione riesce ancora a far fronte al carovita, magari moltiplicando i lavoretti. Da settimane, invece, le regioni del sud-ovest e del centro, dove le persone non ce la fanno più, sono scosse da scioperi e rivolte, anche violente, che vengono sistematicamente represse dal regime islamico. La polizia non esita a sparare sui manifestanti. La contestazione è partita dal Khuzestan (sud-ovest), una ricca regione petrolifera, ma dove la crisi economica, già preoccupante, è aggravata da altri fattori, ambientali – inquinamento e siccità – e strutturali – sottosviluppo, politiche di segregazione contro i sunniti, mancata redistribuzione degli introiti del petrolio tra la popolazione locale.
I disordini si sono poi diffusi in almeno altre diciannove città e numerosi villaggi di una decina di province dell’Iran, che ne conta trentuno in tutto, secondo l’agenzia d’informazione degli attivisti per i diritti umani HRANA, un organismo indipendente. Alcune persone, almeno sei, sono state uccise e più di 1.600 sono stati gli arresti, secondo informazioni recenti pubblicate sui social network, alcune riprese dall’Ong Human Rights Watch. All’origine della rivolta ci sono le misure di austerità annunciate il 3 maggio scorso dal governo del presidente Ebrahim Raisi. In un contesto già segnato da una forte inflazione, intorno al 40%, il capo dello Stato ha ridotto i sussidi accordati alla popolazione su alcuni generi alimentari di prima necessità, provocando un’esplosione dei prezzi della farina, dell’olio, delle uova, del pollo e della pasta, che sono raddoppiati o in alcuni casi triplicati. Di qui il nome di “rivolta dei maccheroni”. Teheran, facendo attenzione a non criticare l’alleato russo, ha giustificato queste misure invocando la crisi mondiale causata dall’invasione russa in Ucraina, dal momento che la Russia e l’Ucraina sono tra i principali fornitori di grano e di olio alimentare dell’Iran. Con i negoziati di Vienna sul nucleare iraniano ancora aperti, l’economia iraniana continua inoltre a essere soffocata dalle sanzioni internazionali decise dall’ex presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che vietano l’esportazione di petrolio e gas. “A scendere nelle piazze, visti i rischi che si corrono, sono le persone che non hanno niente e che di conseguenza non hanno neanche niente da perdere – osserva la sociologa franco-iraniana Azadeh Kian, direttrice del Centro di insegnamento, documentazione e ricerca sugli studi femministi dell’Università Paris-Diderot -. Attualmente, il 43%-45% degli iraniani vive al di sotto della soglia di povertà e il 10% non ha niente da mangiare. Queste manifestazioni sono spontanee. Non si tratta di un vero e proprio movimento sociale. Non ci sono né un’organizzazione né leader. La repressione impedisce del resto una qualsiasi forma di organizzazione e questo spiega perché non sono state formulate specifiche rivendicazioni politiche”. Gli slogan presenti nelle manifestazioni però sono politici e prendono di mira in particolare la guida suprema dell’Iran, Ali Khamenei, e il clero, accusato di monopolizzare le ricchezze del Paese. Alcuni di questi slogan mostrano non solo un violento sentimento antireligioso, ma anche una profonda nostalgia dell’impero, facendo riferimento a Reza Shah (il padre di Mohammed Reza, ultimo scià di Persia, rovesciato dalla Rivoluzione islamica del 1979), che aveva in progetto la modernizzazione e la laicizzazione dell’Iran.
“È una contestazione latente che il regime non può fermare, ma fintanto che non prende una dimensione politica, il regime non si sente minacciato – spiega Clément Therme, ricercatore all’Istituto internazionale di studi iraniani, che ha diretto il volume collettivo “L’Iran e i suoi rivali” (edizioni Passés / Composés, 2020) -. Le fonti di malcontento sono molteplici e il rischio per il regime è che le diverse proteste finiscano ad un certo punto col convergere. Il timore è innanzi tutto che la classe media scenda a sua volta nelle strade. Quel che è certo è che le persone non credono più nel cambiamento attraverso l’alternanza dei partiti che appartengono al sistema”. Oltre a queste manifestazioni, continua in Iran anche lo sciopero degli insegnanti e dei conducenti di autobus, iniziato settimane fa, ma che comincia un po’ alla volta a scemare. Anche questi scioperi hanno scatenato un’intensa repressione da parte delle forze dell’ordine, con l’arresto sistematico, a fine aprile, di decine di sindacalisti del Consiglio di coordinamento dell’associazione degli insegnanti, alcuni dei quali sono ancora in prigione, tra cui il portavoce del movimento, Mohammad Habibi. Sono stati arrestati centinaia di insegnanti, ricercatori, attivisti per i diritti umani e artisti, tra cui i documentaristi Firouzeh Khosravani e Mina Keshavarz, rilasciati su cauzione il 17 maggio scorso, dopo aver passato otto giorni in carcere. Il 7 maggio la televisione di Stato ha annunciato anche l’arresto, sempre nell’ambito di questo movimento, di due francesi, la professoressa Cécile Kohler, 37 anni, e il suo compagno, Jacques Paris, 69 anni, accusati di voler “fomentare una manifestazione finalizzata a creare disordini pubblici”. L’11 maggio, il ministero dell’Intelligence iraniano ha anche affermato che i due stavano cercando di “destabilizzare” il Paese. Sale così a quattro il numero di francesi detenuti nelle carceri iraniane. Gli altri sono: la ricercatrice franco-iraniana Fariba Adelkhah, da tre anni, e il turista Benjamin Brière, da quasi due anni. “Quando sono gli ultras a prendere il potere, le crisi di politica estera sono più frequenti – osserva ancora Clément Therme -. È tipico del complesso obsidionale della Repubblica islamica. Bisogna fabbricare delle crisi estere per alimentarle dall’interno e esercitare una repressione ancora maggiore contro ogni forma di opposizione. Ogni crisi è utilizzata per terrorizzare la popolazione e per creare un capro espiatorio che permetta di sviare l’attenzione dai problemi interni. Per il regime si tratta di instaurare un clima di paura, che si può riassumere in una breve formula: o il caos o lo status quo. A mano a mano che la sua base si restringe, il regime si inasprisce sempre di più – continua Therme –, portando ad una fase di purificazione ideologica, come fu sotto la presidenza di Mahmoud Ahmadinejad, dal 2005 al 2013. L’apparato di sicurezza del regime prende il controllo delle istituzioni legittimamente elette, generando un’escalation ideologica”.
La sociologa Azadeh Kian parla persino di “talebanizzazione del regime” iraniano, che ha trasformato la Repubblica islamica in un regime islamico: “Questo regime sta minando anche le ultime libertà individuali. Le principali vittime sono le donne, che sempre più spesso vengono violentemente aggredite in strada se non indossano correttamente l’hijab. Si è affermata una politica apertamente natalista. Si incoraggiano i matrimoni precoci. Nei parchi le donne e i loro bambini vengono separati dagli uomini. La vittoria dei talebani in Afghanistan ha avuto un effetto sul regime iraniano – sottolinea Azadeh Kian -. Il loro pensiero ha avuto un impatto sui dirigenti iraniani. Ormai molti ayatollah della città di Qom sostengono politiche che rimettono le donne al centro della vita domestica, e questo anche se in Iran solo l’11% delle donne attualmente lavora”. Paradossalmente, l’onnipotente e onnipresente apparato di sicurezza del regime sta mostrando le sue falle: il 22 maggio scorso, il colonnello Sayyad Khodai della forza Al-Quds, un’unità d’élite dei Guardiani della Rivoluzione iraniani, i Pasdaran, incaricata di intervenire all’estero, è stato ucciso, colpito a morte da cinque proiettili sparati da due uomini in moto, mentre rientrava in automobile a casa sua, a Teheran. È la prima volta che un alto ufficiale, che ha prestato servizio in Siria, dove avrebbe diretto il trasferimento delle tecnologie missilistiche agli Hezbollah libanesi, viene assassinato in Iran.
(Traduzione di Luana De Micco)