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 2022  giugno 04 Sabato calendario

L’Ora di Palermo in serie


«Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene». Lo diceva Paolo Borsellino, ma per tanto tempo di mafia non si è parlato, e tantomeno scritto. A rompere in modo netto questa vera e propria omertà, fu un quotidiano, L’Ora di Palermo, il primo a scrivere in modo esplicito di “cosa nostra”. Già alla fine degli anni ’40, ma ancora di più nel ventennio ’54-’75, sotto la direzione di Vittorio Nisticò. Pagando duramente con minacce, attentati e omicidi di ben tre giornalisti, Cosimo Cristina, Mauro De Mauro, Giovanni Spampinato, il prezzo più caro pagato da un giornale. Ma diventando una vera fucina di ben tre generazioni di cronisti che hanno raccontato davvero la mafia, giornalismo di inchiesta, non poche volte arrivando prima delle inchieste giudiziarie e per questo dando molto fastidio a “cosa nostra”. Una storia fatta anche di firme eccellenti come Leonardo Sciascia, Renato Guttuso, Danilo Dolci, Carlo Levi, Antonio Calabrò, Vincenzo Consolo, Andrea Camilleri, con i suoi primissimi racconti, e la grande fotografa Letizia Battaglia, recentemente scomparsa.
Una vicenda lontana, ma attualissima, di giornalismo militante ma anche culturale, raccontata da mercoledì 8 giugno su Canale 5 nella serie L’Ora, inchiostro contro piombo.
Il quotidiano palermitano nasce all’inizio del ’900 per iniziativa della famiglia Florio, famosi imprenditori del settore vitivinicolo. Giornale della media borghesia siciliana, critico nei confronti del fascismo, fu il primo a pubblicare, il 27 dicembre 1924, il cosiddetto “Memoriale Rossi” che accusava apertamente il Duce di essere il mandante dell’omicidio di Giacomo Matteotti. Ma poi si deve adeguare al regime.
Nel dopo guerra, con la direzione del socialista Pier Luigi Ingrassia, L’Ora si apre alle istanze sociali e si scontra con la mafia. Dopo la strage di Portella della Ginestra, dell’1 maggio 1947, quando furono uccise undici persone, il quotidiano parlò esplicitamente della responsabilità della banda Giuliano e dei legami coi proprietari terrieri e settori della politica. Salvatore Giuliano scrisse una lettera al direttore intimando di non riferire «fatti da non pubblicizzare» altrimenti ci avrebbero «rimesso la pelle». Ingrassia la pubblicò con una sua risposta che ben rappresenta cosa era e cosa sarà L’Ora. «Noi non abbiamo paura di rimetterci la pelle. La pelle è un tessuto, caro Giuliano, che ha un valore se sotto ci sono tanti organi fra i quali il cervello e il cuore e quindi un’idea e una passione. Se per paura dovessimo rinunciare all’idea, a che ci servirebbe la pelle?».
Ma è con l’arrivo di Nisticò che il quotidiano, dal 1954 passato alla società Gate, proprietà del Pci, mette la mafia in prima pagina. «Lupara canta», «Pane e morte», «Il generale mafia», «Così uccide la mafia», «I rapporti tra la mafia e i suoi amici politici», alcuni dei titoli accompagnati da grandi foto di impatto, scelte e tagliate dallo stesso Nisticò. « L’Ora, quanti ne morirono» era il grido degli strilloni che distribuivano il giornale. Ma non erano solo i morti. Il quotidiano fa grandi inchieste, inaugura il lavoro giornalistico in pool, in particolare sul boss corleonese Luciano Liggio, “sparando” in prima pagina il 15 ottobre 1958 la sua foto sotto a un titolo a nove colonne: «Pericoloso!». La risposta non si fa attendere, alle 4.52 del 19 ottobre una bomba distrugge parte delle rotative del quotidiano. Ma il giorno dopo esce col titolo a caratteri cubitali: «La mafia ci minaccia. L’inchiesta continua».
Inchieste non solo sulla mafia ma anche sulle borgate, sui diseredati di Palermo. Lo fa anche con le vignette per ridicolizzare la mafia, come il fumetto “La storia di Calogero Lupara”. Uno stile che anticipava quello di Peppino Impastato. E non è unica similitudine. Il 5 maggio 1960 viene ucciso Cosimo Cristina, corrispondente dell’Ora da Termini Imerese. Il corpo viene fatto trovare sui binari della ferrovia per farlo passare come suicidio. Era un delitto politico- mafioso ma malgrado l’impegno dei colleghi i depistaggi hanno impedito di avere verità e giustizia. Così come per Mauro De Mauro sequestrato e fatto sparire il 16 settembre 1970. Tommaso Buscetta, interrogato da Falcone e Borsellino, così spiegò: «De Mauro era un cadavere che camminava. Cosa Nostra era stata costretta a “perdonare” il giornalista perché la sua morte avrebbe destato troppi sospetti, ma alla prima occasione utile avrebbe pagato anche per quello scoop. La sentenza di morte era solo stata temporaneamente sospesa». Ma cosa aveva decretato la sua morte? Così Leonardo Sciascia: «Penso che aveva imbroccato l’ipotesi giusta». Per lui era la morte del presidente dell’Eni, Enrico Mattei, per la quale De Mauro stava collaborando col regista Francesco Rosi. Ma un’altra pista porta alle collusioni tra mafia e eversione neofascita. Il giornalista veniva dal mondo di destra ma era stato accolto da Nisticò perché davvero molto bravo. Troppo per mafia e ambienti collusi. Così come Giovanni Spampinato, ucciso a Ragusa il 27 ottobre 1972. Anche lui indagava sui rapporti delle organizzazioni di estrema destra con la mafia. E anche sulle coperture istituzionali perfino nel palazzo di Giustizia. Venne fermato prima di accertare la verità. Ma anche per la sua morte non si è ancora avuta una verità giudiziaria completa. Erano «cronisti dell’Ora», un marchio di qualità che ha accompagnato tanti di loro che, finita l’avventura palermitana, hanno proseguito in tante testate a far vedere cosa volesse dire vero giornalismo d’inchiesta.