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 2022  giugno 05 Domenica calendario

Intervista all’economista Jeffrey Sachs

La guerra tra Russia e Ucraina, il riscaldamento globale, l’interruzione nella catena delle forniture di cibo che «sta mettendo a dura prova soprattutto i Paesi in condizioni di estrema povertà, in Africa, ma anche in parte dell’Asia e dell’America». Il solco che si sta scavando nel mondo tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti da una parte e la Russia dall’altra, ma anche tra gli Usa e la Cina. Eppure «non è la fine della globalizzazione», assicura Jeffrey Sachs, professore alla Columbia University, al Festival dell’Economia di Trento per parlare di transizione ecologica e di nuovi modelli di sviluppo, e presentare con Andrea Illy la Regenerative Society Foundation, la fondazione per lo sviluppo sostenibile creata con un gruppo di imprese italiane.
«L’interconnessione globale dell’umanità attraverso il commercio, le idee, la tecnologia e il movimento delle persone si sta intensificando, anzi, non finisce».
Vale anche per il cibo, professore? Con la guerra tra Russia e Ucraina abbiamo persino tirato fuori dall’armadio parole come “autarchia”, che ci eravamo dimenticati di conoscere.
«Il mio caffè del mattino non verrà mai coltivato al Central Park.
Continuerà ad essere coltivato in Kenya, Ruanda, Uganda, Etiopia, Guatemala, Colombia, Vietnam e altrove. Questo è solo un esempio. E in futuro, una notevole quantità di lavoro qualificato sarà “lavoro da qualsiasi luogo”, dall’Africa, dall’Asia, dalle Americhe, per leaziende europee, per esempio. E il turismo rimarrà, certamente, una delle parti più grandi e preferite dell’economia mondiale. Anche la sanità e l’istruzione superiore saranno sempre più globalizzate».
Eppure la guerra sembra aver fermato tutto questo.
«Ci troviamo in una situazione molto pericolosa, prima di tutto bisogna che questa guerra finisca, e non può che finire con un compromesso.
Significa che bisogna fare in modo che i russi si ritirino dall’Ucraina, ma anche che l’Ucraina stessa accetti di non entrare a far parte della Nato.
Questo è l’unico compromesso possibile, i politici americani non sono disponibili ad accettarlo, ma i politici europei dovrebbero fare propria questa proposta. Se si insiste nel voler vincere da entrambe le parti non ci sarà alcuna vittoria per nessuno».
In poco più di tre mesi la guerra ha cambiato il nostro punto di vista sulla realtà, sul modo di rapportarci con gli altri.
«Le ragioni della globalizzazione non sono scomparse. Nasce dal fatto che alcuni Paesi hanno bisogno di risorsedi cui dispongono altri Paesi, che è conveniente vendere i propri prodotti ad altri e comprarne a propria volta. L’idea che ora ci dirigiamo verso la chiusura delle relazioni con il resto del mondo è un’idea molto pericolosa, ha enormi costi ed enormi rischi. Se noi guardiamo al resto del mondo solo come una potenziale fonte di pericoli diventiamo più esposti al rischio di conflitti».
La globalizzazione però ha anche dei rischi, come quello di essere dipendenti da prodotti di necessità, a cominciare dal cibo.
«Ha dei problemi, ma ha soprattutto dei vantaggi. Un Paese in via di sviluppo ben gestito, con accesso ai principali mercati e alla finanza internazionale, può crescere molto rapidamente. L’ascesa della Cina dal 1980, 1,4 miliardi di persone, è dipesa dalla globalizzazione. La Cina ha iniziato le sue riforme nel 1980 con una povertà molto alta; nel 2020 la povertà estrema era terminata.
L’India, l’Africa subsahariana e altre regioni in via di sviluppo hanno il potenziale per svilupparsi rapidamente utilizzando ilcommercio e la finanza globali e il flusso di tecnologie e lavoratori qualificati. Se smettiamo di essere interconnessi, inoltre, come mai potremo risolvere le questioni legate al cambiamento climatico? Noi abbiamo bisogno di collaborare, abbiamo bisogno di superare gli attriti. È per questo che io non sono a favore della politica estera degli Stati Uniti che vede i rapporti con il resto del mondo sotto forma di alleanze, l’alleanza Occidentale e tutti gli altri.
Un punto di vista molto americano, a me non piace, ritengo che sia pericoloso e fuorviante».
Ma noi Europei siamo abbastanza forti da supportare il nostro modello, che è più orientato verso l’interconnessione?
«Sfortunatamente l’Europa non ha una politica di sicurezza autonoma e così gli Stati Uniti sono quelli che in momenti come questo possono permettersi di alzare di più la voce.
Ma le priorità degli Stati Uniti non sono le priorità dell’Europa, l’Europa non ha interesse a inimicarsi la Cina, e l’idea che la Nato possa espandersi a Oriente è una pessima idea».
Come andrà a finire?
«Lo scenario migliore è la consapevolezza che dobbiamo far funzionare la globalizzazione e rafforzare il multilateralismo e il sistema delle Nazioni Unite. La guerra può essere un campanello d’allarme sui rischi delle tensioni geopolitiche. Il caso peggiore è impensabile: una escalation del conflitto tra superpotenze nucleari. Ovviamente dobbiamo evitarlo a tutti i costi».