Robinson, 4 giugno 2022
Biografia di Dante Troisi
«Siamo allo stesso modo dei monaci del convento situato sulla collina (…) deformati dai peccati e dai reati, noi e loro coltiviamo la certezza che vi saranno sempre persone che saliranno la collina a inginocchiarsi e imputati da giudicare, pensiamo al prossimo con passiva indulgenza, una noncuranza moderata dallo scrupolo di rispettare le regole; talvolta con dolore, in cui, però, è più pietà di noi che pena per gli altri». Pubblicato nei “Gettoni” di Einaudi nel 1955, Diario di un giudice fa conoscere al grande pubblico Dante Troisi. «Era la prima volta in assoluto» annota, nella riedizione Sellerio del volume, Andrea Camilleri, che di Troisi fu amico, «che, in Italia, un giudice in servizio scrivesse della giustizia con tanta spigolosità e crudezza, con tanta dolorosa e sofferta verità, con tanta spietatezza di sé e degli altri, offrendosi interamente ai suoi lettori, senza riparo alcuno, forte solo della propria certezza morale». Troisi nasce nel 1920 a Tufo, in provincia di Avellino. Combatte valorosamente nella seconda guerra mondiale, passa tre anni in un campo di prigionia nel Texas. Entra in magistratura nel 1947 e va a lavorare a Cassino. IlDiario di un giudice, riletto a oltre mezzo secolo di distanza, acquista il sapore di un grande classico: un racconto aspro, malinconico, ricco di ironia e di una devastante “pietas”. Troisi racconta un’Italia agro- pastorale che si sta riprendendo a fatica dagli sconvolgimenti della guerra, una società gretta e classista in cui i poveri si levano il cappello al passaggio del prete, del maresciallo e del farmacista, la violenza domestica e lo stupro dilagano, miseria e ignoranza non sono mali da combattere, ma crimini da reprimere. Perché questo è il ruolo che quella società assegna al giudice: quello di guardiano di un ordine che si pretende immutabile, di repressore di ogni diversità. Ma se il contesto è arcaico, e profondamente mutato nel tempo, la grandezza di Troisi sfida gli anni per un altro verso: entra nell’animo, nel cuore, nella testa del giudice, lo anatomizza, lo seziona, ce lo restituisce con un vigore dolente che nessuno, prima e dopo di lui, ha saputo evocare. E in questo suo viaggio di introspezione e disvelamento coglie la meccanica eterna del giudicare. Dovrebbero rileggere questo libro quelli che strepitano a proposito di “correntismo”, “porte girevoli” e altri “must” delle contemporanee narrazioni sul mondo giudiziario. I giudici di Troisi, così ossessionati dalla carriera, così timorosi di non allontanarsi dai binari della tradizione, non conoscono né correnti né CSM, tremano per un’alzata di ciglia dei superiori gerarchici, per una raccomandazionesi aggrappano alla marsina del politico locale o alla sottana del parroco. Sono i giudici prima che la Costituzione venisse applicata, i giudici che non infastidiscono il manovratore. Troisi è un’altra storia. È un narratore empatico, un giudice che soffre di ogni condanna, addirittura ( qui siamo nel peccato mortale) in odor di comunismo. Un anno dopo l’uscita del libro l’onorevole missino Madia invoca contro di lui un procedimento disciplinare, e il guardasigilli Moro lo promuove. Due i capi di accusa: aver rappresentato il mestiere di giudice in modo non adeguatamente sorretto da idealità e spirito di sacrificio e aver difettato di senso morale ( l’io narrante prova angoscia per una possibile maternità della moglie, coltiva l’idea di un aborto, allora reato). Nonostante autorevoli difensori nel mondo culturale e letterario, viene condannato, e subisce una censura. Anni dopo sarà nuovamente processato, questa volta per eccesso di garantismo. Assolto, si vedrà sciogliere il collegio da lui presieduto, troppo innovativo. Del resto, ha scritto frasi come «le penitenze dei monaci, i mesi e gli anni di reclusione inflitti dai giudici non anticipano di un istante un mondo migliore» o «tra tutti gli uomini noi siamo i meno liberi, e perciò odiamo la libertà degli altri». Dopo il “Diario” pubblica altri romanzi, va in finale allo Strega e al Campiello, e almeno uno di questi testi, Voci di Vallea,meriterebbe di stare alla pari con il “Diario” per la ricchezza balzacchiana dei caratteri e il calore umano che trasmette. Il “Diario” diventa uno sceneggiato Rai con Sergio Fantoni e Ilaria Occhini, ma a quel punto Troisi si è già dimesso sbattendo la porta: sorge il sospetto che sia troppo colto, troppo ricco di dubbi e di sfumature per incarnare il modello ancor oggi socialmente più gradito di magistrato. Accanto ai libri, meritano menzione alcune sue sceneggiature, come La smania addosso, scritta con Berto, e con la collaborazione di Bevilacqua e Sciascia, eLa mano sugli occhi, tratta daIl corso delle cose di Camilleri quando non è ancora Camilleri e pochi prendono sul serio quel suo pastiche linguistico italo- siciliano considerato troppo eccentrico. Nella biblioteca del Centro Sperimentale di Cinematografia, infine, c’è una copia manoscritta della sceneggiatura di Detenuto in attesa in giudizio, il film del ’ 71 con Alberto Sordi. È firmata anche da Troisi, che però non figura nei crediti ufficiali. Luigi Saraceni, altro giudice- scrittore che ben lo conosceva, racconta che Troisi chiese al regista Nanni Loy di tagliare una battuta in cui si parlava di «omicidio colposo e preterintenzionale», con evidente controsenso giuridico. Loy rispose che sì, era un errore, ma «suona così bene!». E Troisi ritirò la firma.