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 2022  giugno 04 Sabato calendario

Intervista a Woody Allen

A pochi mesi dall’ottantasettesimo compleanno, Woody Allen ha iniziato a preparare il suo cinquantesimo film. «Sono un uomo fortunato», mi dice, «nonostante tutto ho avuto una bella vita: ho fatto il lavoro che desideravo e ho una moglie che amo con cui festeggio a dicembre venticinque anni di matrimonio». Ha accettato l’intervista per parlare del nuovo libro Zero Gravity, ma quando gli faccio osservare che è impossibile non discutere del «nonostante tutto» sorride e mi risponde: «Non mi tirerò indietro». In uscita in Italia per La nave di Teseo con traduzione di Alberto Pezzotta,Zero Gravity è una raccolta di diciannove i racconti, alcuni dei quali pubblicati in precedenza sul
New Yorker.
Con l’eccezione diCrescere a Manhattan, più lungo e personale, si tratta di storie con situazioni al limite del nonsense, piene battute fulminanti: c’è un medicinale che «causa sonnolenza nelle persone che si chiamano Seymour», un tipo che ha inventato «uno schermo ultrapiatto che spina anche il pesce» e un altro che ha assistito «a un sacrificio umano – un rito che avrebbe giudicato barbaro, se la vittima non fosse stato un agente delle assicurazioni». L’ironia appare l’unica arma di fronte al mistero doloroso di un’esistenza che ci regala comunque momenti di meraviglia, e non sembra cambiato nulla dalla barzelletta che raccontava inIo e Annie: «Due vecchiette sono ricoverate in un pensionato per anziani e una di loro dice: “Ragazza mia, il mangiare qua dentro fa veramente pena”, e l’altra: “Sì, è uno schifo, ma poi che porzioni piccole!”. Be’, essenzialmente è così che io guardo alla vita: piena di solitudine, di miseria, di sofferenza, di infelicità e disgraziatamente dura troppo poco». È lo stesso approccio del finale diManhattan, in cui elencava i motivi per cui vale la pena vivere, o diStardustMemories, dove il suo alter ego si incantava di fronte al sorriso di Charlotte Rampling mentre ascoltava Louis Armstrong in una mattinata illuminata dal sole di aprile. A incontrarlo oggi, l’incanto sembra aver lasciato il posto alla malinconia, ma appena accenna ai nuovi progetti si illumina di entusiasmo, forse anche di rivalsa. «Non sono mai stato molto mondano, e a maggior ragione adesso preferisco parlare via zoom» mi spiega mentre una sua assistente lo aiuta a collegarsi, «…e per usare un eufemismo non sono mai stato molto tecnologico».
Cominciamo dalle dediche del libro: “A Manzie e Bechet, le nostre due adorabili figlie, che sono cresciute davanti ai nostri occhi usando le carte di credito alle nostre spalle. E ovviamente a Soon-Yi, se Bram Stoker ti avesse conosciuta, avrebbe saputo come scrivere un sequel»...
«Sia le nostre figlie che Soon-Yi mi hanno richiesto di non parlare mai di loro in termini sentimentali o addirittura sacri: a tutte loro piace essere prese in giro, e io le ho accontentate».
In “Io e Annie” lei cita Groucho Marx: «Non vorrei mai appartenere a nessun club che contasse tra i suoi membri uno come me». La pensa ancora così?
«La battuta pare sia in realtà di Freud: Groucho l’ha resa famosa, e spiega con chiarezza la mia vita di adulto, anche per quanto riguarda le relazioni con le donne. Sì, ancora oggi qualunque ambiente esclusivo sarebbe sminuito da una persona pedestre come me».
“Io e Annie” si doveva intitolare “Anedonia”, la patologia che non consente di godere di alcuna gioia.
Anche in questo caso è ancora così?
«Purtroppo sì. Nei momenti più belli sento quello che W.H. Auden ha definito il suono in lontananza di un tuono durante un picnic. Ma, voglio ribadirlo, non significa che la vita non sia degna di essere vissuta».Lei ha sempre celebrato le cosiddette “champagne comedy” e la protagonista de “La rosa purpurea del Cairo” ha una storia d’amore con un personaggio che vive nel mondo perfetto e inesistente dei film.«Vorrei tanto che la vita fosse così bella e le “champagne comedy” ci suggeriscono che potrebbe essere così, ma poi la quotidianità ci travolge. In quei film sono tutti eleganti e raffinati, sembra che non esista la malattia o il dolore. L’esistenza quotidiana è tutt’altro: un brutto affare concepito senza il nostro consenso che genera costantemente dolore».“Crescere a Manhattan” è ancora una volta pieno di amore per la sua città. New York rappresenta un’eccezione o la realizzazione di quello che gli Stati Uniti possono diventare?«New York ci fa capire cosa significhi la promessa americana e, pur vivendo un momento di crisi dovuto alla pandemia, continua a rappresentare la città con maggior ambizione, internazionalità, cultura, energia e divertimento. Quindi entrambe le cose».I protagonisti si interrogano sui personaggi letterari preferiti: Sachs sceglie Gregor Samsa, che si sveglia trasformato in scarafaggio nella “Metamorfosi” di Kafka, e Lulu la volpe nel “Piccolo Principe”.«Lulu è ispirato a una persona che conosco e la sua risposta mi ha sempre colpito: la volpe tiene a essere identificata come tale e nello stesso tempo vuole essere addomesticata. Nel caso di Sachs, beh devo ammettere che sono proprio io a parlare».Ci sono molti “schlemiel”, termine yiddish con cui si descrive un ebreo goffo e impacciato.«Mi sono sempre sentito così, la vita mi spaventa e mi deprime. Io non ho mai avuto nulla di eroico: non ho né il coraggio né le risorse».In “Quasi Rembrandt” un cavallo dipinge quadriche raggiungono quotazioni significative. È quello che pensa dell’arte contemporanea?«Ho il massimo rispetto per il tormento che vive ogni artista nel momento in cui crea. So anche che ci sono molti ciarlatani, ma non voglio generalizzare. La storia nasce da un episodio realmente accaduto, ma nessuno ha preso sul serio quanto realizzava il cavallo o lo ha paragonato alle meravigliose opere astratte di Pollock o De Kooning».In uno dei racconti c’è una pop star che si rifiuta di avere un rapporto sessuale con un animale e la stampa titola: “Pop star sexy non inclusiva.Discrimina gli animali”. Sembra un’evidentecritica al politicamente corretto. È così?«Il politicamente corretto nasce con intenzioni nobili, che percorrono la stessa strada dell’educazione e della civiltà. Ma sempre più spesso è estremizzato fino a livelli ridicoli, che hanno generato vere proprie cacce alle streghe, con docenti che ad esempio hanno perso il loro lavoro per aver usato espressioni semplicemente ambigue. Tutto ciò limita la libertà di espressione e questo è grave, in particolare in campo artistico».È parte della stessa critica la battuta del produttore che in un racconto intende fare “un remake del Cavaliere della valle solitaria interpretato solo da nani”?«Il linguaggio politicamente corretto non utilizzerebbe mai il termine “nano” e comunque la battuta riguarda soprattutto la follia hollywoodiana, un mondo vuoto e assurdo».Lei prende in giro Hollywood parlando di film come “una via di mezzo tra “Persona” e “Lo squalo” e “Pasteur contro l’uomo lupo”. C’è anche uno sceneggiatore chiamato a “dare un po’ di pepe a “Zombi psicopatici sulla luna, il sequel dei Buddenbrook”. Eppure questo mondo produce anche capolavori.«Specie negli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta, Hollywood produceva moltissimi film e, insieme a una marea di prodotti puramente commerciali, nascevano le opere meravigliose di Orson Welles, John Huston o John Ford. Questo si è ripetuto negli anni Settanta, quando la fine dello studio system ha generato il rinascimento hollywoodiano e i grandi film di Scorsese e Coppola. Tuttavia si tratta di eccezioni, non della norma, di un’industria che è florida grazie a film commerciali di nessun valore artistico».C’è qualcuno tra i registi contemporanei che ammira particolarmente?«Paul Thomas Anderson: mantiene in manieraconsistente uno standard molto alto».Lei si considera un regista o uno scrittore?«Uno scrittore che dirige film per renderli il più possibile vicino a come li immagino».Come mai, con l’eccezione di New York, i suoi film hanno più successo all’estero?«Ci sono due teorie: la prima è che essendo cresciuto vedendo film europei, la mia sensibilità mi ha portato a girare film in quella vena e per questo sono amati in particolare in Europa. La seconda è che i miei film sono salvati dalla traduzione e mi fanno sembrare un cineasta migliore di quello che sono».Un personaggio del libro dice: «Ho un pranzo con Meryl e sono già in ritardo. Le hanno offerto di interpretare Arafat e ci sta facendo un pensierino».Poi c’è anche una battuta su Spielberg: «Si è preso un anno sabbatico per fare il consulente alla Knesset».«Sono battute bonarie su due enormi talenti dello spettacolo. Per quanto riguarda Spielberg, dai tempi diSchindler’s List lo vedo sempre più impegnato e più religioso, a cominciare dal rispetto rigoroso del sabato».Lei ha sempre definito la religione “una menzogna”.«In questa fase della mia vita vedo una grande differenza tra la religione istituzionale, che continuo a condannare, e il credo personale che personalmente non ho, ma che invece rispetto. Non accetto che le istituzioni, peraltro spesso corrotte, sentano di avere in esclusiva una linea diretta con Dio. Tuttavia ho conosciuto molte persone che cercano nella religione qualcosa che dia senso all’esistenza e renda costanti e compiute le bellissime emozioni che ogni tanto proviamo tutti, ma ci sembrano solo delle oasi nel deserto della vita».In “Manhattan” lei dice che «dovremmo tutti essere monogami come i cattolici e i piccioni».«È una battuta romantica e so che spesso è soltanto un ideale: è sempre bello quando vedi un amore che dura tutta la vita».Con Mia Farrow sembrava destinato a continuare così, ma è finito malissimo e la sua compagna di dodici anni le ha scagliato accuse gravissime: cosa risponde?«Che si tratta di accuse che sarebbero ridicole se non fossero terribili e tragiche».Che cosa prova nei suoi confronti?«Non riuscirò mai a perdonarla. Tennessee Williams dice che la crudeltà deliberata è imperdonabile: io mi sforzo di non pensarci, ma quello che ha fatto nei miei confronti è malvagio e del tutto premeditato».Non le può sfuggire che Mia Farrow penserà lo stesso di lei.«Lo so, ma con la differenza che le sue accuse sono assolutamente false, come ha decretato due volte anche la giustizia. Nel secondo caso un giudice è arrivato a redarguirla pubblicamente accusandola di plagiare i figli contro di me: questo però pare non sia sufficiente per fermare l’odio e il fango. Anzi sembra che lo incrementi».Che cosa l’ha colpita maggiormente di tutta questa vicenda?«Che accuse grottesche e basate su perfide farneticazioni siano state pubblicate dalla stampa senza la minima verifica e finite in un tribunale. Poi, inevitabilmente, hanno dimostrato la loro inconsistenza e sono finite nel nulla, ma non sarebbero mai dovute arrivare a quello stadio. Hanno lasciato il fango addosso, ma ritengo comunque di essere fortunato: se quelle accuse mi fossero arrivate addosso quando avevo trent’anni la mia carriera sarebbe stata distrutta sul nascere».A ripensarci oggi, c’è qualcosa di cui si è pentito?«Se mi chiede in relazione a mia moglie, posso dirle che ci amiamo profondamente da decenni e credo che questa sia la risposta. Se si riferisce alle accuse di Mia Farrow la mia risposta è no: so di non aver fatto nulla di lontanamente vicino all’infamia di cui mi ha accusato, mentre per quanto riguarda il mio amore per Soon-Yi le ho già detto. Il mio pentimento maggiore è non aver terminato il college».Ha notato qualche differenza tra il modo in cui lei e il suo caso è considerato in America rispetto al resto del mondo?«Meno di quello che può immaginare: sia l’America che il resto del mondo è diviso tra chi mi considera una vittima e chi pensa sia un mostro».Perché molti pensano che Mia Farrow dica la verità?«C’è una parte dell’America che pensa che Biden abbia rubato le elezioni».