ItaliaOggi, 4 giugno 2022
Orsi&Tori
La globalizzazione? Ormai si è rotta definitivamente. E Jamie Dimon, capo di JP Morgan, la più influente banca mondiale, ha avvertito «dell’imminente uragano economico».
La globalizzazione dell’economia prese avvio con la diplomazia del ping-pong di Richard Nixon e Henry Kissinger, agli inizi degli anni 70, quando soggiornarono alla Diaoyutai State Guesthouse di Pechino. La seconda tappa decisiva fu il viaggio a Mosca del presidente americano Bill Clinton per abbracciare Boris Eltsin e il suo successore Vladimir Putin. Quindi, prima l’avvio delle relazioni con la Cina, con la successiva decisione proprio di Clinton di far ammettere la Cina nel Wto, l’organismo mondiale del commercio, dopo la fine dell’Unione Sovietica e l’avvio della Russia inglobata nel processo economico mondiale grazie anche alla perestroika dell’ultimo presidente
dell’Urss, Michail Gorbaciov, che trasformò il partito comunista in partito socialdemocratico.
L’incantesimo vero della globalizzazione, come forma di sviluppo economico della maggioranza del mondo, è durato fino a quando, agli occhi degli Stati Uniti, la Cina non si è delineata come superpotenza e quindi stava venendo meno la convenienza per il resto del mondo di poter produrre in Cina e negli altri paesi asiatici a costi super convenienti. Questo, se vogliamo, era il lato egoistico ed opportunistico della globalizzazione, criticabile da un lato per lo sfruttamento dei lavoratori, i quali tuttavia, dall’altro, con il lavoro uscivano dalla fame. Era stato il vicepresidente cinese Deng Xiaoping, capo assoluto dopo il disastro della Banda dei quattro, a intuire la formula per lo sviluppo: paese socialista (o meglio comunista con la relativa struttura di potere) ma organizzato con strumenti tipici del capitalismo.
A determinare la definitiva rottura del clima della globalizzazione è stato il fattore tecnologico, per il quale da sempre gli Usa avevano avuto il primato. Ma appunto per la globalizzazione hanno fatto produrre i loro device in grande quantità in Cina e siccome i cinesi sono 1,4 miliardi, fra i tanti sono stati selezionati cervelli non solo in grado di produrre computer e cellulari ma anche di avanzare nei processi tecnologici fino a superare gli Usa in alcune specialità, come nel calcolo quantistico. La Cina, che aveva mandato e continua a mandare decine di migliaia di giovani promettenti nelle migliori università americane, dove essi risultano sempre ai primi posti per capacità e intelligenza, è così diventata non la fabbrica ma il competitore del mondo occidentale e in particolare degli Usa.
La storia della globalizzazione in Russia è in buona parte diversa, perché la popolazione è solo di 150 milioni di persone, cioè la metà che negli Usa, e comunque Putin si è accontentato di valorizzare il gas e il petrolio senza ricercare l’eccellenza come i cinesi e in più senza poter essere fabbrica per il resto del mondo, almeno per alcuni prodotti. Ma mentre la Cina non aveva avuto alcun ruolo nella Seconda guerra mondiale, la Russia (Unione Sovietica) aveva avuto con Giuseppe Stalin il merito di fermare Adolf Hitler al costo di ben 20 milioni di morti e quindi, nella conferenza di Yalta aveva ottenuto che sia la metà della Germania sia gli altri paesi est europei come la Polonia, l’Ungheria, la Cecoslovacchia ecc. fossero a regime comunista. Ma il regime comunista non offriva né libertà né benessere e quindi è stata naturale la fine in questi paesi del regime comunista e dell’influenza della Federazione Russa, sostituto costituzionale dei Soviet.
Per Putin, che era stato abbracciato come un fratello da Clinton quando Eltsin gli cedette il ruolo di presidente della Federazione, è stata una costante deminutio, non avendo saputo l’occidente integrarlo nel sistema atlantico come era stato tentato con il vertice di Pratica di Mare, al quale partecipò anche l’ultimo presidente repubblicano americano con sale in zucca, cioè George W. Bush.
Il paradosso è che sia la Cina, pur con il ferreo regime comunista, che la Russia hanno varato due costituzioni dove è stato ripreso il modello americano della possibilità di soli due mandati per il capo dello stato. Ma da ex-colonnello del KGB, Putin fatta la legge ha trovato subito l’inganno facendo diventare presidente, dopo i suoi due mandati, il suo giovane allievo Dimitrij Medvedev, che era primo ministro. Interrotta la catena per un mandato, le posizioni si sono nuovamente invertite. Molto più serio, anche se con un regime che non prevede diversi partiti come teoricamente in Russia, dove ci sono elezioni (sia pure preordinate) da parte dei cittadini, il presidente cinese Xi Jinping, adottando il criterio seguito da Mao e Deng di introdurre il proprio pensiero nella costituzione, fra i vari cambiamenti ha anche eliminato la possibilità di soli due mandati nello stile americano: così a ottobre il presidente Xi sarà sicuramente rieletto segretario del partito comunista e dal consiglio di stato (che non è un organo amministrativo come in Italia, ma l’esecutivo dell’Assemblea del popolo) verrà confermato per la terza volta presidente della Repubblica popolare di Cina.
Nel contesto attuale, dove in Usa si è già verificato che un presidente (Donald Trump) lo è stato solo per un mandato e dove è molto probabile che il fenomeno si ripeta con l’attuale Joe Biden, poter governare a lungo e quindi programmare a lungo è un vantaggio competitivo enorme, anche se non contemplabile in democrazia.
In un contesto politico mondiale come questo, trova la sua base la drammatica previsione del capo di JPMorgan Chase, che però ha una base altrettanto grave sul piano economico finanziario degli Stati Uniti. Una situazione che fa apparire realistica la previsione-allarme di Dimon per l’analisi che segue.
In base al consensus di più istituti di ricerca, le problematiche economiche diventeranno gravi quando molto probabilmente nel 2024 entrerà in una significativa recessione la maggiore economia del mondo, gli Stati Uniti. In passato le recessioni colpivano gli Stati Uniti più o meno ogni 10 anni. Ma è successo che dopo appena due anni dal lockdown l’economia americana ha preso a girare a una velocità da far paura.
Il ricordo della crisi più forte in termini di recessione è quella del 2007-2008 che un giornale definì un vero e proprio infarto, innescato dal fallimento di Lehman. Poi appunto il crollo per la pandemia del 2020. Ma questa volta i mercati azionari e la politica americana sono assai più deboli e fragili e proprio per questo le conseguenze possono essere assai più gravi. In più c’è la guerra, di cui non si conosce la fine.
Ad aprile i prezzi al consumo sono stati superiori all’8,3% e anche se si depura l’indice dai prezzi dei generi alimentari e dei prodotti per l’energia, l’inflazione si ferma al 6,2%. Se la guerra non finisce, la catena di approvvigionamento potrebbe saltare. Ad aggravare la situazione dell’economia americana e quindi per molti versi del mondo c’è stata e non si sa se ci sarà ancora, la decisione della Cina di curare il Covid con i lockdown.
All’opposto, il mercato del lavoro americano è esplosivo, con due posti di lavoro disponibili per ogni disoccupato nel marzo scorso, che è un record superiore a quello del 1950. I salari, secondo uno studio della banca d’affari Goldman Sachs, stanno salendo come mai era successo prima: a marzo al +5,5%. Una percentuale che le aziende non possono incamerare senza conseguenze sui loro conti. Salvo aumentare in continuazione i prezzi con gli effetti inevitabili sull’inflazione.
A buttare acqua sul fuoco c’è la Fed, che vuole aumentare il tasso primario di interesse almeno del 2,5% entro la fine dell’anno. E ciò che preoccupa è la convinzione della Fed che con questo aumento non si provochi una caduta e che anzi, come stima la banca centrale americana, l’inflazione sia ricondotta al 2%. Probabilmente non sbaglia chi pensa che la Fed stia sognando.
Negli ultimi 65 anni le statistiche indicano che i tassi sono aumentati per sette volte a un ritmo pari a quello attuale scelto dalla Fed. In sei dei sette cicli economici la reazione, nell’arco di poco più di un anno, è stata una chiara recessione. Solo nel 1990 non ci fu recessione, ma allora l’inflazione era bassa e il mercato del lavoro negli Usa era equilibrato e non infuocato come oggi.
È alla luce di questi dati che Dimon ha lanciato l’allarme. Lo ha fatto per trarne poi dei benefici per la sua banca? Non sembra credibile perché se ciò accadesse, la prima banca americana ne ricaverebbe pesanti conseguenze sia di immagine sia anche sul piano delle regole del mercato.
A giustificare l’allarme è anche la attuale debolezza del mercato azionario. La discesa in questo 2022 è pari al 15%, che assomiglia molto a quella della recessione del 1991.
Come conforto, perché la situazione non precipiti in uragano, c’è il fatto che ormai da anni le banche si sono rafforzate godendo anche di denaro a buon mercato. Ma chi la pensa come Dimon mette insieme prezzi stratosferici e una recessione, anche se leggera, indotta dalla banca centrale americana. Il che, tradotto nel linguaggio di Wall Street, vorrebbe dire che gli attuali prezzi potrebbero essere troppo alti.
La situazione americana è resa pericolosa anche perché stanno girando nel sistema le enormi liquidità (pari al 26% del pil) immesse dal governo per tamponare i danni del Covid. Tutto questo cash è una delle cause della forte salita dell’inflazione.
Ma il pessimismo e l’allarme suonato da Dimon trova una ulteriore motivazione nel fatto che se, come si stima, la recessione lieve o grave si vedrà entro la fine del 2024, essa coinciderà con la campagna elettorale per le presidenziali e qualcuno ha affermato con efficacia che ciò potrà tradursi in una campagna ancora più tossica di quella che già sarebbe senza recessione. E il governo, nel tentativo di salvare la presidenza democratica potrebbe spingere per una politica espansiva, coinvolgendo inevitabilmente nello scontro anche la Fed, alla cui presidenza Biden ha confermato Jerome Powell. In più il congresso sarà nelle mani dei repubblicani di Trump, che quasi sicuramente bloccherebbero una spesa antirecessione che aiuterebbe una presidenza democratica.
Insomma, una situazione davvero ingarbugliata e a rischio, che legittima almeno in parte le parole fortissime di Dimon. Anche perché una crisi americana avrebbe riflessi in tutto il mondo, sommandosi alle conseguenze dell’invasione russa. Il mondo più povero, in Medio Oriente e Asia, soffre già di mancanza di cibo e costi dell’energia alle stelle. E l’Europa dell’euro non sta meglio, con il potere d’acquisto delle famiglie falcidiato dagli aumenti di costo non solo dell’energia. Una recessione americana ridurrebbe le importazioni Usa e quindi aggraverebbe le condizioni dei paesi esportatori in Usa. Ma anche una politica più dura della Fed farebbe salire il valore del dollaro incentivando la vendita di titoli di stato dei paesi emergenti per saltare sulla moneta americana. C’è un dato netto che viene dal Fondo monetario internazionale (Fmi): oltre il 60% dei paesi poveri sta soffrendo una grave crisi del debito.
Com’era bella e dolce la globalizzazione.
Ma poiché non si torna indietro, che almeno i governanti di tutto il mondo capiscano che l’allarme di Dimon ha un fondamento e che cerchino di prevenire l’uragano in primo luogo fermando la guerra e abbandonando le teorie, certo fondate, per cui la Cina prima o poi vorrà recuperare la vecchia Formosa, considerandola suo territorio. Almeno, che il caso Ucraina suggerisca a tutti, ma in primo luogo agli Stati Uniti, di far prevalere sempre la ricerca dell’accordo diplomatico, che è sempre meglio di una guerra e di una recessione, anche se costa a tutte e due le parti. (riproduzione riservata)