Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  giugno 04 Sabato calendario

Biografia di Leonardo Del Vecchio

In tutte le storie, nelle biografie dei capitani di industria come nella vita delle aziende, c’è sempre un momento topico, un piccolo episodio che finisce per dare il senso a tutto il racconto. Nel nostro caso quel momento arriva quasi alla fine del libro. La scena è ambientata a Cernobbio, sulla ghiaietta del parco di Villa d’Este, quella che le telecamere inquadrano almeno una volta all’anno affollata di banchieri, politici e giornalisti per il convegno Ambrosetti. Questa volta invece ad animare la scena sono i vertici di Luxottica, la multinazionale dell’occhiale fondata da Leonardo Del Vecchio nel 1961 e ormai diventata leader mondiale nel settore della vista. È l’estate del 2014, l’occasione è la convention annuale del gruppo. Bilanci, progetti, analisi: al termine della giornata l’amministratore delegato Andrea Guerra riceve un biglietto riservato. Apre e legge: «Grazie di tutto». La firma è quella di Del Vecchio. Con cortesia, il fondatore ha licenziato il ceo.
Il nodo è tutto in quel biglietto: quanto il capitalismo familiare è in grado di delegare ai manager? Quanto, al contrario, specie tra i fondatori di azienda, rimane forte l’impulso di fare da sé, di seguire l’istinto primordiale che aveva fatto nascere un impero dal nulla? La biografia di Leonardo Del Vecchio scritta da Tommaso Ebhardt gira tutta intorno alla straordinaria forza creatrice di un self made man milanese trapiantato nel bellunese. Perché gli imperi si costruiscono meglio in periferia, lontano dai riflettori.
Storia straordinaria quella di Del Vecchio, una trama hollywoodiana: la scalata sociale del bambino indigente finito all’istituto degli orfani perché la famiglia non poteva mantenerlo, lentamente risalito lungo la piramide sociale, da una modesta attività di incisore fino al momento in cui riesce a mettersi in proprio: «Mi sentivo dentro un’enorme voglia di fare e una grande passione». Ebhardt trova la “cartella di Del Vecchio Leonardo” nell’archivio dell’orfanotrofio milanese dei Martinitt. C’è la lettera con cui la madre chiede di ammetterlo alla struttura per i ragazzi senza famiglia «dovendo io andare a lavorare e non avendo nessuno a cui affidarlo. Il piccolo mi starebbe su la strada e prima che mi abbia a capitarle qualche disgrazia preferisco il suo ricovero, anche per una più accurata educazione».
Secondo Ebhardt è nei sette anni tra i Martinitt che Del Vecchio forma un carattere d’acciaio e impara quel gusto per la precisione che faranno la sua fortuna di imprenditore. La madre aveva visto giusto. Quel che colpisce in questa storia è il senso innato per la conquista dell’autonomia, per costruire la propria azienda. Anche a costo di trasferirsi ad Agordo, creando nelle montagne bellunesi la capitale mondiale degli occhiali. Le pagine che descrivono la fase pionieristica di Luxottica, quasi uno stato nascente alberoniano, raccontano della forza dell’uomo nuovo che costruisce da solo la sua fortuna. E in fondo è proprio qui il punto dirimente, quello che lo porterà ormai ottantenne, già proprietario della principale multinazionale mondiale degli occhiali, a tornare in campo dopo aver lasciato per dieci anni la guida dell’azienda a un manager come Guerra. Perché l’azienda di Agordo è cresciuta molto nel corso degli anni ma, si capisce dal racconto, è diventata un’organizzazione certamente complessa a servizio del suo fondatore. Era Del Vecchio ad avere l’ultima parola su tutte le scelte aziendali, non solo quelle strategiche. In fondo era sempre stato così, in fondo quello era il segreto del suo successo.
Curiosamente la motivazione con cui l’imprenditore ha giustificato il suo ritorno in sella non è la nostalgia del suo passato novecentesco ma la voglia di futuro. L’accusa implicita ai manager è quella di non aver saputo cogliere nel modo giusto la sfida della digitalizzazione: «Tornando a parlare con le persone, visitando le filiali, andando nei diversi mercati ho capito che l’azienda era indietro... Ci sono gruppi molto più piccoli di noi che fanno numeri nettamente più grandi con l’e-commerce». Nel libro Andrea Guerra preferisce non replicare alle accuse. Ma rivelatrice non è la seconda parte della frase, è la prima. È quel racconto di un fondatore d’impresa che, nonostante l’età, continua a «visitare le filiali», ad «andare nei diversi mercati», insomma a fare quel che ha sempre fatto fin quando da giovane spiegava che «bisogna sempre continuare ad andare avanti. Quando pensi di aver raggiunto un buon risultato è lì che devi muoverti per evitare che gli altri ti prendano quel che hai accumulato». Agiscono quelli che Keynes chiamava «gli spiriti animali del capitalismo». O se si preferisce la tendenza a costruire e distruggere per innovare e ricostruire, la distruzione creativa di Schumpeter. Istinti tipici dei creatori di industria che le prime generazioni del capitalismo familiare non riescono in genere a irreggimentare nelle regole ordinate dettate dalla finanza. E in fondo sembra essere questo il sugo di tutta la storia, quel che sta dietro il biglietto consegnato sulla ghiaietta di Villa d’Este in un giorno d’estate del 2014. —