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 2022  giugno 04 Sabato calendario

Il carcere genera crimine

Nei giorni scorsi è passata, per ora solo alla Camera, la proposta di legge per impedire che siano costrette a stare in carcere mamme con bimbi di meno di 6 anni. Una norma di civiltà che dovremmo stupirci non sia mai stata finora adottata. Primo firmatario: Paolo Siani (Pd), fratello di Giancarlo, il giornalista assassinato dalla Camorra nel 1985. I figli non hanno colpe. E se, com’è giusto, i minori devono essere primariamente tutelati, è meglio che siano ospitati con le madri in case famiglie sorvegliate. Il caso dei «bambini detenuti» è esemplare di un atteggiamento storicamente diffuso nelle nostre società. La realtà delle carceri proprio non la vogliamo vedere. È continuamente rimossa dall’immaginario collettivo, nonostante fatti gravi come, per esempio, i pestaggi di Santa Maria Capua Vetere. Incuranti del dettato costituzionale (articolo 27) che parla di umanità delle pene nella loro funzione rieducativa. Non raramente la detenzione ha aspetti di disumanità. Quasi sempre non è rieducativa. Anzi il carcere è il massimo produttore di recidive, specie quando si tratta di minori.
E, dunque, Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta avanzano, con il titolo Abolire il carcere (Chiarelettere), quella che loro chiamano «una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini». Titolo e sottotitolo sembrano in aperta e stridente contraddizione. Ma, assicurano gli autori, il carcere «a dispetto delle sue promesse non dissuade nessuno dal compiere delitti e rovina vite in bilico tra marginalità sociale e illegalità, perdendole per sempre». Ricordano che non pochi tra i costituenti avevano avuto esperienza diretta della prigionia in epoca fascista, da lì la loro sensibilità al tema. La prima commissione parlamentare di indagine sulle carceri era composta in gran parte da deputati e senatori ex reclusi. Bisogna aver visto era il titolo dell’editoriale della rivista «Il Ponte», pubblicata nel 1949, con scritti di diversi padri della Patria (da Altiero Spinelli a Ernesto Rossi, da Gaetano Salvemini a Vittorio Foa, a Leone Ginzburg). Li sollecitò a intervenire – in un’Italia del dopoguerra con ben altre urgenze – Piero Calamandrei per il quale la pena detentiva doveva essere riservata solo a casi eccezionali e per periodi limitati.
Questo afflato culturale abolizionista si è stemperato nel tempo. Il dibattito è rimasto confinato alla letteratura scientifica in materia. Nel confronto pubblico e politico si è consolidato – con rare eccezioni tra cui quella radicale – un vero e proprio tabù. Meglio non parlarne. Si perdono irrimediabilmente voti. A quei costituenti, alle citate figure simbolo della Repubblica, mai sarebbe venuto in mente di augurarsi che «qualcuno marcisse in galera, buttando via la chiave della cella». Eppure avevano patito persecuzioni, torti e ingiustizie. Ma «se si conosce davvero la realtà del carcere risulta difficile augurarsi che altri ne facciano esperienza». La differenza sta tutta qui. Noi non vogliamo immedesimarci, nemmeno per un attimo, nella condizione di un detenuto. Negli ultimi 22 anni ben 3.310 persone sono morte in carcere, un terzo delle quali per propria scelta. Il 70 per cento di chi ci entra è destinato a tornarci, una percentuale ancora più alta per i minori. Una comunità che li segue, li fa studiare, li può salvare. Il carcere li condanna, quasi sicuramente, a proseguire sulla via del crimine.
Tragedie
Negli ultimi 22 anni 3.310 persone sono morte in carcere, un terzo delle quali per suicidio
Se il nostro grado di civiltà giuridica venisse valutato solo dall’angolo buio e controverso della realtà carceraria, l’Italia ne uscirebbe assai male. Soprattutto per il sovraffollamento solo parzialmente ridotto dalla pandemia. Ma che ha «carattere strutturale e sistemico» si legge nella sentenza della Corte europea dei diritti umani in cui l’Italia è stata condannata a risarcire il signor Mino Torreggiani e altre sei persone per le condizioni detentive al limite dell’umano. Il nostro Paese è stata a lungo inadempiente in tema di tortura. La convenzione di New York del 1984, adottata dall’Onu, è stata ratificata nel 1988, ma la legge relativa – che ha introdotto nel codice penale l’articolo 613 bis, sanzionando il reato di tortura – è del 2017. Un decreto legge del 2014 ha previsto risarcimenti per chi è risultato vittima di «trattamenti inumani o degradanti».
Nonostante diverse pronunce della Corte costituzionale (in particolare quella del 2021 sull’ergastolo ostativo), messaggi alle Camere (Napolitano nel 2013 sulla «stringente necessità di cambiare profondamente la condizione delle carceri in Italia»), il dibattito è limitato e marginale. Su questo tema Marta Cartabia, come presidente della Consulta e oggi come ministro della Giustizia, ha espresso più volte serie preoccupazioni. Anche con toni indignati. La riforma che prende il suo nome (134/2021), riconoscono gli autori, costituisce un mutamento significativo del sistema penale e penitenziario. E introduce diverse sanzioni sostitutive. Un percorso che altri Paesi hanno intrapreso da tempo. Se in Italia la maggioranza dei condannati sconta la pena in carcere (il 55 per cento), in Germania si scende al 28. E l’indice di recidiva più basso in Europa si ottiene in Svezia, grazie alle pene non carcerarie e al lavoro all’esterno. Le attività rieducative sono poi finanziate, in alcuni Paesi come il Regno Unito, grazie all’emissione di social impact bond. Investire in progetti educativi ha un suo ritorno, non solo sociale. La Rand corporation ha calcolato che 150 mila dollari investiti in misure alternative per cento ipotetici detenuti fanno risparmiare un milione di dollari in tre anni di costi legati agli effetti della recidiva.
Gli autori assicurano che le loro proposte soddisfano tanto la domanda di giustizia dei cittadini quanto il diritto del condannato al reinserimento. Nella relazione della Commissione ministeriale per la riforma del codice penale (2006-8), presieduta da Giuliano Pisapia, si legge che «nulla come l’avvenuto recupero del condannato rafforza l’autorevolezza dei precetti penali». E Gustavo Zagrebelsky, nella post fazione, condivide l’idea che si debba passare dal carcere come regola al carcere come eccezione. «Diciamo che la commissione di un crimine – scrive Zagrebelsky – fa sorgere nel colpevole il dovere di pagare il proprio debito alla società. Il carcere è un modo efficace di pagarlo? La risposta è no». Non sappiamo sinceramente se vi sia anche la minima possibilità che la politica ne discuta seriamente. Abbiamo qualche fondato dubbio. Indulto e amnistia, per esempio, sono da anni istituti negletti. Lo sguardo compassionevole sul carcere e l’attenzione alla tutela dei diritti e della dignità delle persone prive di libertà non sono solo un banco di prova della nostra civiltà. Sono anche la misura del grado di umanità, in declino, cui ci stiamo lentamente abituando.