la Repubblica, 3 giugno 2022
New York, la città più filmata del mondo
Chi arriva per la prima volta a New York ha la sensazione di esserci già stato e ciò è dovuto al codice genetico di una città nata sull’accoglienza, come racconta Il Padrino II,in cui Vito Andolini, sbarcato bambino a Ellis Island, si incanta a guardare la statua della libertà molti anni prima di diventare don Vito Corleone. Esiste tuttavia un secondo motivo: New York è la città più filmata del mondo, e nella prefazione aFun City Cinema: New York in un secolo di film di Jason Bailey, Matt Zoller Seitz spiega l’innamoramento dei cineasti per la sua energia: “New York non è solo una città. È La Città”. Non è un caso che il cinema in America sia nato nelle sue strade, prima che un gruppo di geniali imprenditori ebrei decidessero di spostare gli studios in California per questioni di clima e di luce.
L’etimo di cinema è movimento, ed è proprio questa la caratteristica principale di una metropoli unica per varietà di culture, razze, religioni e strati sociali: un moto perenne che non consente di fermarsi né tantomeno di guardare indietro. La New York dei padroni dell’universo diWall Street o del Falò delle vanità sembra una città lontanissima da quella diFa’ la cosa giustaoFrances Ha, eppure sono facce della stessa medaglia e l’abitante dell’Upper East Side ritiene di essere il perfetto newyorkese non meno di colui che vive a Bed-Stuy o nella downtown di Manhattan.
New York si alimenta del proprio mito riuscendo a conciliare gli opposti: è spietata e dolce, all’avanguardia e decrepita, potente e in affanno, cinica e solidale, affollatissima e piena di solitudine. Su quest’ultima contraddizione il cinema ci ha regalato un capolavoro comeLa finestra sul cortile, dove il Greenwich Village è stato ricostruito interamente a Hollywood, oLa città nuda, che ha scelto invece il realismo e, con l’ovvia eccezione del western, tutti i generi hanno celebrato queste caratteristiche: dal musical al melodramma, dalla commedia sino ai film di fantascienza comeFuga da New York.
Bailey analizza la differenza di approccio tra i registi provenienti da altrove come Milos Forman e Sergio Leone e i newyorkesi Woody Allen, Martin Scorsese e Sidney Lumet, nato a Philadelphia ma cresciuto nel Lower East Side: lo sguardo è diverso, ma l’innamoramento è analogo. È prettamente newyorkese la vicenda de Il cantante di jazz, il primo film sonorodella storia del cinema, e ribadisce che i film ambientati in questa città non sarebbero concepibili altrove: basti pensare a titoli diversissimi come Il maratoneta, Un uomo da marciapiede, Come eravamo, Il braccio violento della legge o Quei bravi ragazzi, dove, in uno dei piani sequenza più belli della storia, Ray Liotta riesce a far colpo su Lorraine Bracco entrando dalla portadi servizio di un locale periferico che a lui sembra mitico, non molto diverso dalla modesta discoteca dove è re per una notte John Travolta ne La febbre del sabato sera.Nulla a che vedere con ilCotton Clubin cui Richard Gere si esibisce con la tromba per gangster spietati.
Ci sono immagini che hanno consacrato il mito newyorkese, come Audrey Hepburn all’alba sulla quinta strada inColazione da Tiffany, o King Kong sull’Empire State Building, ma a volte interi film celebrano la città, come Manhattan,che inizia con le parole “amava New York” e ne sigilla il legame con la Rapsodia in blu di George Gershwin: è una città romantica come poche, basti pensare a Un amore splendido o, in chiave dicommedia, aStregata dalla luna, A piedi nudi nel parco oC’è posta per te.E ha una dimensione epica, che rimane tale anche nel quotidiano: un ottimo film d’azione del 1974 aveva il titolo The taking of Pelham One Two Three, letteralmente La presa della linea 1, 2, 3 per Pelham.
A Roma o a Milano sarebbe un titolo risibile e infatti in Italia venne cambiato con lo scialbo Il colpo della metropolitana, accompagnato da un sottotitolo fin troppo esplicativo: Un ostaggio al minuto. In questo caso la dimensione epica esalta i contorni di un’azione criminale e contribuisce ad alimentare anche il mito della metropolitana di New York, la più celebre del mondo nonostante non sia la più bella né la più efficiente. Questo elemento trova una consacrazione ne I guerrieri della notte, una formidabile rivisitazione pop dell’Anabasi di Senofonte: una banda di teppisti trasformati in eroi viene inseguita da gang violente e coloratissime mentre cerca di tornare a Coney Island dal Bronx. Una volta arrivati a casa, invece di urlare “Thalassa! Thalassa!” si chiedono se sia valsa la pena combattere per tornare lì, ma è l’amarezza di un attimo perché, da guerrieri, sono pronti a tornare a lottare. In una città di contrasti, sono in guerra anche le bande dei Jets e degli Sharks, che si scontrano inWest Side Story mentre rivive l’amore tragico di Romeo e Giulietta.
Il cinema rende leggendari anche gli elementi opachi e accetta l’ironia su tutto, tranne che sul proprio mito: solo in un film su New York non diventa ridicolo quanto dice Burt Lancaster in Piombo rovente: “Amo questa sporca città”. È quello che pensa l’autore di questo libro godibilissimo, che la ama al punto da condividere la celebre battuta di John Updike: “Il vero newyorkese crede segretamente che coloro che vivono altrove stiano in qualche modo scherzando”.