la Repubblica, 3 giugno 2022
Le parole sono importanti
«Guarda, mamma, che buffo!». Una delle norme di comportamento che con maggior sorpresa si sono apprese nell’infanzia è quella per cui è maleducato indicare le persone di cui si sta parlando con il dito. Che male c’è? Non è facile da spiegare a un bambino, forse perché tanto facile non è neppure spiegarlo a sé stessi. Che sia un atto effettivamente spiacevole lo si capisce appieno soltanto quando qualcuno punta il dito a noi. Riferirsi a qualcuno con il linguaggio delle parole anziché con quello dei gesti purtroppo non è molto meno scabroso.
Gli equivalenti verbali del dito puntato, “questo” e “quello”, sono quasi altrettanto bruschi, e con i sostantivi descrittivi bisogna pure andare molto cauti perché anche quando non sono ingiuriosi come quelli elencati da Vittorio Lingiardi nel suo recente articolo sulla lingua (“negro”, “giudeo”, “invertito”, “sodomita”) possono riguardare condizioni sociali, professionali, fisiche considerate svantaggiate e che quindi non è gentile evocare. Gli educatori più saggi consigliano ai bambini una qualifica passe-partout. Dire “quel signore” o “quella signora” è una buona politica con quasi ogni persona adulta (il numero delle eccezioni è esiguo: sacerdoti, suore, poco altro).
Ci sono però dei casi in cui ci si deve riferire proprio a quelle condizioni di cui è scabroso parlare. Non dei più scottanti è quello dei lavoratori domestici. Il lessico italiano offre una varietà di soluzioni, nessuna delle quali pare adeguata a ogni contesto e circostanza. “Famiglio”, “fantesca”, “ancella” sono termini desueti. “Serva” è quasi un residuo schiavista, anche se di “servitù” si sente ancora parlare, e non soltanto nelle parodie di Corrado Guzzanti (come quella degli indimenticabili Canti dell’Olgiata ). “Cameriera/ e” – fuori da hotel e ristorante – è uso aristocratico. Le soluzioni più adottate sono: “domestica/o” (oggi sentito come discriminatorio), “colf” (burocratico), “donna di servizio” (ormai pressoché spregiativo), “donna” (ellittico), “donna delle pulizie” (usato più per i luoghi di lavoro). Anche in questo caso l’ambito religioso fa parte a sé, col manzoniano “perpetua”, che aggira non solo lo scoglio della professione umile ma anche quello della familiarità tra un uomo casto e una donna. Vanno registrati poi due tipi di usi molto differenti fra loro. Il primo è il riferimento alla provenienza nazionale o etnica della persona (“il/la filippino/a”, “l’eritreo/a”, “il/la bengalino/a”), spesso compiuto disinvoltamente e senza alcuna intenzione spregiativa ma anzi con simpatia. Il secondo è il giro di parole “la signora che ci aiuta in casa”, la cui prolissità già sottolinea di per sé l’intenzione vistosamente rispettosa.
Tutti questi, a parte “serva”, sono o sono stati usi eufemistici. La lingua (e per “lingua” si intende qui la “langue” di Ferdinand de Saussure, il sistema di convenzioni condivise e che si stabilisce a partire dalla diffusione di usi individuali) ha sempre trovato modo di parlare di tutto, anche degli argomenti più delicati, adottando di volta in volta soluzioni parziali, non sempre gradite da tutti gli interessati e soprattutto provvisorie. Quest’ultima caratteristica viene sistematicamente trascurata dai dibattiti odierni. La parola “casino” che negli anni Sessanta causava manrovesci materni all’incauto ragazzino che l’avesse usata allora era considerata volgarissima, ma era nata come eufemismo per sostituire “lupanare”, che era il nome precedente dei luoghi di esercizio della prostituzione e che pure era diventato a suo tempo impronunciabile per i parlanti per bene.
Oggi “casino” è gergale ma, in quanto a volgarità, ritenuto ormai abbastanza neutro. Vale infatti anche per il contrario dell’eufemismo: ci sono termini che furono offensivi e non lo sono più. Molti anni fa il caporedattore di una rivista richiese non senza imbarazzo a un suo redattore la sostituzione di una parola apparentemente innocente: “buggerare”. Alla richiesta di spiegazioni sibilò: «È il verbo dei sodomiti». In effetti l’etimo di “buggerare” lo fa derivare dalla parola latina per “bulgaro”, che era passata a significare “eretico” (per la diffusione tra i bulgari dell’eresia patarina) e quindi “sodomita”, perché agli eretici si attribuivano sempre i peccati all’epoca considerati infamanti. Dobbiamo allora considerare “buggerare” offensivo? Lo zelante caporedattore si sbagliava.
Contrariamente a quanto molti oggi ritengono scontato, il significato di una parola non è nel suo Dna ma cambia con il tempo, con gli usi e i contesti. Indubbiamente oggi “negro” è un termine offensivo, ma è altrettanto certo che non sempre lo è stato. Chi lo usa oggi per indicare una persona è probabilmente razzista ma certamente screanzato, sprovvisto cioè di maniere che tengano conto della sensibilità dominante. Chi però pretende che “negro” sia sempre stato un termine offensivo e voglia censurarne anche gli usi del passato non sbaglia di meno. Il problema non sta tanto nei nomi quanto nel dito che indica. Nel dare cioè alle categorie una consistenza rigida: sia per quelle che assegniamo agli altri per marcare la loro estraneità (e magari offenderla), sia per quelle di orgoglio identitario, in cui ognuno può scegliere di includere e rinchiudere sé.