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 2022  giugno 03 Venerdì calendario

Il figlio che non ho mai avuto

«Niente figli? Ahi, ahi, ahi!». Come nella vecchia pubblicità di un operatore turistico, chi ammetta di non essere padre suscita l’impressione di aver sbagliato percorso ed essersi perso nella foresta della vita, magari inseguendo qualche falsa pista. Spesso il sottotesto è una velata accusa (con un briciolo di invidia da parte maschile): quella di aver scelto di godersela sfarfallando di fiore in fiore o comunque anteponendo la libertà, la carriera o chissà che altro. Poi, ognuno ha la sua storia, può essere che le cose abbiano preso quella piega passando per ben altre, impervie, strade, ma è una faccenda privata e non ti va di condividerla neppure con il più cortese degli estranei, che sarebbe il lettore. Però: né padre, né vitellone, è andata così. Mi sono perso qualcosa. Quando mi scorrerà la vita davanti in un minuto e ne vedrò gli «highlight», francamente, sarà l’unica assenza. Nella visione personale del destino sono anche convinto che dovesse andare così, che fosse scritto nel Dna, che una linea maschile conflittuale dovesse concludersi nella pace suprema, quella siglata tra mio padre e me e oltre non arrischiare.
Comunque, certo: ahi, ahi, ahi! A non avere figli si finisce ultimi in tutte le graduatorie. Quando distribuiscono le carte si resta invariabilmente a mani vuote. Solo per i vaccini non è stata una discriminante. Ma se avessi preso il Covid nella fase letale, ci fosse stato un solo posto in terapia intensiva e avessero dovuto scegliere tra me e un padre di famiglia, penso mi avrebbero lasciato fuori. O l’avrei suggerito io. Giorni fa ero in un paese del Casentino, Quota, dove avvenne un eccidio nazifascista. Rastrellarono la popolazione maschile e decisero di fucilare cinque uomini. Il fratello di uno dei condannati si fece avanti proponendo uno scambio: l’altro aveva sei figli, lui nessuno. Il colonnello tedesco comprese e accettò. Ahi, ahi, ahi!
Dicono: ma sei un uomo, voi fate sempre in tempo a riprodurvi. Me l’hanno detto a quarant’anni, a cinquanta, l’ultima volta un anno fa. Ricordo quando Vittorio Gassman ebbe un figlio in tarda età: lo chiamava il suo «autunnale bambino». Ma ce n’erano stati in primavera e in estate. Fare il primo mentre cadono le foglie non era per me. Anche perché implicherebbe una disparità anagrafica con la madre, il che produce una certa allegria, ma del genere passeggero, per quel che mi riguarda.
La stagione era un’altra, ma eravamo giovani e non lo sapevamo. A vent’anni, quando lei ebbe un ritardo, per scongiurare l’evenienza andammo a piedi al santuario di San Luca, gradino dopo gradino, come fanno i bolognesi quando vogliono chiedere qualcosa al destino. Funzionò, se mai esisteva un nesso. Anni dopo avremmo fatto la stessa strada per opposti motivi, ma troppo tardi. Qualche volta sento dentro di me l’eco dei nomi scelti e mai pronunciati (Ludovico, Giulietta). Tutti viaggiamo insieme al fantasma delle vite non vissute, ma dobbiamo farcelo amico o ci devasterà privandoci della gioia dell’unica esistenza disponibile. Ho pensato spesso che il modo di riuscirci sarebbe per me scrivere la storia di «mio figlio» in un libro, aprire la «sliding door» e immaginare che cosa sarebbe successo se quel pellegrinaggio giovanile non avesse dato l’esito voluto. C’è chi sostiene che la scrittura sia catartica e abbia la forza di curare un trauma, ma può anche riempire un vuoto? Potrei far crescere Ludovico a Bologna, portarlo con me, io e lui soli, a Torino, rinunciare per lui a New York, Beirut a viaggiare per 85 Paesi? Che cosa farebbe da grande? Ci arruoleremmo insieme nell’esercito del Costa Rica che soldati non ha? A un certo punto, inevitabilmente, la narrazione si interromperebbe perché il suo autore lascerebbe la scena, prima di scoprire come finisce la storia di suo figlio. E va bene così, mai il contrario. Ecco, quella è la più grande paura, l’unica che ti viene evitata. Lo penso spesso quando vedo genitori che lasciano i figli andare, in acqua, sulla giostra, verso la maturità: dove trovano la forza di staccarsi? Da figlio mi staccavo di continuo, anche a strappi, da padre avrei dovuto chiudere gli occhi e buttarmi: ma se poi non tornano? Non si rinuncia per non soffrire, qualche volta lo si fa per amore, quasi sempre per forza.
Ci sono i succedanei, certo. C’è il bambino a cui fai da padrino. C’è la volta in cui ti mettono in braccio il tuo cucciolo, di cane o di gatto, che amerai senza riserve. Hai solo animali? Ahi, ahi, ahi! C’è quella maledetta frase detta da Spencer Tracy, a cui facevano sempre fare la parte del bravo padre: «Tu non mi devi niente, quel che ho fatto per te lo farai per tuo figlio». E se non ne hai, a chi restituisci i doni ricevuti, come ricambi la cortesia dell’universo? Molti anni fa, in Corea del Sud, mentre raccontavo una curiosa pratica per scongiurare il suicidio, venni indotto a fare testamento. In una stanza illuminata da una candela scrissi su un foglio a chi lasciavo cosa. I beni erano pochi, le persone molte. Tutte al di fuori della linea del sangue. Va bene (anche) così. Ludovico è una storia, che forse un giorno scriverò