La Stampa, 3 giugno 2022
Chiudere le prigioni
L’altro giorno sono andato in una classe di terza media a parlare della guerra e non ricordo come mi sono addentrato in un inciso nel quale sostenevo che, fosse per me, abolirei il carcere. I ragazzi mi hanno guardato con stupore e curiosità ma era finito il tempo e ne ho avuto abbastanza solo per dire che in un mondo fondato sulla libertà individuale, dovrebbe essere non più di un’estrema eccezione. Quando sono tornato al giornale, sulla scrivania c’era un libro edito da Chiarelettere. Titolo: Abolire il carcere. Per ora ne ho letto la prefazione di Gherardo Colombo e la postfazione di Gustavo Zagrebelsky, e in quest’ultima ho trovato un passaggio luminoso, nel quale Zagrebelsky ricorda l’eterna figura del capro espiatorio: il polo negativo che rafforza il polo positivo, il colpevole che permette agli altri di rassicurarsi e autoassolversi. Ecco perché, per aggregarsi, una società ha bisogno di segregare, e perché il carcere serve soprattutto a chi sta fuori, non a chi sta dentro. Ogni società, mi permetto di aggiungere, ha le leggi e i capi che le si confanno e la nostra, malgrado sia fra le meno violente del pianeta, vive di insoddisfazione e di rancore, è disaggregata e ha costante esigenza di aggregarsi: attraverso rivendicazioni di onestà e richieste di più carcere e più chiavi da buttare, pretende segregazione, la pretende dal basso incoraggiata dall’alto. Mi stupisce più la violenza di quelli fuori della violenza di quelli dentro. Leggerò il resto del libro e le proposte che vi si avanzano, ma bisogna essere molto in pace con sé stessi per svuotare le carceri, chiuderle, e solo allora buttare le chiavi.