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 2022  giugno 02 Giovedì calendario

Dibattito sullo schwa

Parto da alcune considerazioni personali scaturite dalla lettura di un libro che fa pensare. Se devo scrivere un’email al “gruppo di persone che si laurea con me” posso iniziarla in vari modi. Per esempio “Cari tutti”, usando il cosiddetto maschile sovraesteso, che però non mi piace, soprattutto se nel gruppo prevalgono le studentesse. Oppure “Care studentesse e cari studenti”, che mi sembra comodo e rispettoso delle ragazze che altrimenti rimarrebbero “nascoste” in quel maschile dato per scontato. E fin qui siamo nel mondo cisgender. “Care studentesse e cari studenti”, per fortuna, va bene anche nel mondo transgender, quando è binario. Capita però di avere qualche tesista (fantastico, questa parola mette d’accordo tutti i generi!) che si definisce non-binary o genderqueer o che comunque in questo momento della sua vita non vuole rispondere a un genere e quindi mi chiede, almeno nel ricevere una lettera, una libertà dalla “schiavitù” dei pronomi. Così, consapevole di fare un torto alla nostra lingua, fortemente binaria e priva della dimensione neutra (l’inglese è più agile), mi capita di optare per il famigerato “Car* tutt*”. Lo faccio dopo aver preso in considerazione il “Car? tutt?”, ma poi preferendo gli asterischi allo schwa.
Sto però maturando la convinzione che “cara e caro” potrebbe essere sufficiente: non perché ribadisce il binarismo ma perché, con un po’ di fantasia, può contenere, nel continuum linguistico che si sviluppa tra i due generi, le altre possibilità.
Il dibattito in corso rivela molte sfumature del nostro rapporto con la lingua e la comunità. C’è chi vede flessibilità innovative e chi storpiature finto-inclusive. Una cosa è certa, mentre cerchiamo una soluzione tensioni opposte ci attraversano. Per esempio, io vorrei rispettare tutte, tutti e tutt*, ma senza compromettere la scorrevolezza della lettura né trasformare una conferenza in una mitragliata di vocaboli capitozzati. Penso che la lingua sia un laboratorio di vita e dunque non mi scandalizzo per le innovazioni, ma confesso ogni tanto di patire la poca agilità espressiva che l’ipersoggettivazione inclusiva richiede. Quando sono tra schwaisti accaniti mi capita di difendere la tradizione e quando sono tra puristi “pro lingua nostra” mi trovo a difendere la vitalità cangiante del linguaggio. Di una cosa sono certo: dico rettrice, dottoressa e ministra e fatico a capire le donne che applicano a sé sostantivi maschili.
A questi e altri temi è dedicato Così non schwa, saggio dal titolo inequivocabile scritto da Andrea De Benedetti, docente e linguista. È un pamphlet in cinque capitoli, che l’autore definisce «tiepido e poco belligerante», ma comunque capace di polemiche e fendenti. Se De Benedetti non ha dubbi nel considerare giusta «la battaglia sui femminili dei nomi di professione», fin dal primo capitolo sostiene l’uso del “maschile non marcato” o “sovraesteso”, cioè la regola che impone l’uso del maschile plurale per gruppi misti (uomini e donne). Non la considera una sedimentazione del patriarcato e sostanzialmente adduce motivazioni pratiche. È una convenzione, dice, un dispositivo morfologico quasi del tutto desemantizzato che aiuta a parlare in maniera snella ed efficace, «senza cancellare le donne dal discorso (al massimo “nascondendole” un po’)». «Il fatto che anche nei bandi di concorso compaia il maschile non marcato», aggiunge, «non significa che gli uomini abbiano un qualche vantaggio competitivo rispetto alle donne».
Su questo mi sembra ottimista: la tradizione accademica, soprattutto nei posti apicali, è invece piuttosto maschiocentrica, e direi che il maschile non marcato storicamente ha “marcato” molto. Mi sembra il classico caso in cui linguaggio e società si sono autoconfermati riflettendosi. Tanto che oggi nelle commissioni dei concorsi devono essere rappresentati entrambi i generi. Persino la Chiesa, credo nel 2020, ha sostituito nella messa la parola fratelli con la formula fratelli e sorelle. Non mi illudo che ripensare la lingua sia sufficiente per abolire le ingiustizie e le discriminazioni, ma non ignoro il potere performativo del linguaggio e il suo ruolo nell’influenzare le nostre rappresentazioni mentali.
Quanto ai limiti dello schwa, pur condividendo alcune critiche sollevate da De Benedetti, per rivolgersi alle persone non binarie auspico una soluzione certo difficile da trovare, ma che tenga in considerazione le richieste di riconoscimento delle persone direttamente interessate.
Non sono invece d’accordo quando l’autore critica chi critica alcuni vocaboli che risultano offensivi o comunque non graditi. Dice che non è questione di significante ma di significato, non di termine ma di contesto. È vero, ma penso che liberarsi di parole che ledono la dignità altrui sia un passo di civiltà. Possiamo sentirci a nostro agio dicendo “negro”, “giudeo”, “invertito”, “sodomita”? Sono parole usate fino a ieri che portano su di sé eredità troppo ingombranti.
Un’attenzione contemporanea al vocabolario deve essere accompagnata da un lavoro quotidiano nelle scuole, nei posti di lavoro, nelle case e nei media, perché le parole si alleggeriscano del peso del pregiudizio, dell’odio e della paura dell’alterità, della novità, della varietà. Senza invocare una sterilizzazione del linguaggio e consapevoli che l’ipersoggettivazione inclusiva rischia di creare proliferazioni espressive infinite, oggi abbiamo il compito di “dialogare con il linguaggio” aiutandolo a evitare parole espulsive che costruiscono capri espiatori oppure che svalutano o ignorano categorie specifiche già messe a dura prova dalla storia. La sfida, senza perdere di vista contesti e intenzioni, è stare a guardare quali mutamenti reggono nel tempo e quali no, quali entrano nell’uso e quali no.
Dobbiamo imparare a stare, senza fanatismi ma anche senza fantasmi, nell’inevitabile sostanza magica e vitale della lingua, nella sua intrinseca alterità, varietà e limiti compresi. Nel frattempo, lei batte dove il dente duole.