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 2022  giugno 01 Mercoledì calendario

Alberto Manguel incontra Benjamín Labatut. Un dialogo

Benjamín Labatut, la conoscevo peraver letto non solo questo magnifico libro (“Quando abbiamo smessodi capire il mondo”, Adelphi, traduzione di Lisa Topi), non voglio chiamarlo romanzo, che è finalista al premio Von Rezzori, ma anche le sue opere precedenti. Vorrei però cominciare con una domanda per conoscerla meglio. Lei è nato in Olanda?
«Sono nato in Olanda e ci ho vissuto fino ai due anni. Poi sono tornato, o meglio, la mia famiglia è tornata in Cile e quindi sono rimasto lì fino agli otto anni. E poi, all’incirca tra gli otto e i quindici anni sono tornato in Olanda. Però diciamo che in generale la mia vita è questa, vivere tra Cile e Olanda, agli antipodi in tutto e per tutto, culturalmente non esistono paesi così lontani tra loro, ma anche geograficamente. E questo penso che abbia generato in me una sorta di dualismo o di piccola psicosi che mi porto dietro tutt’oggi».
Quanto è utile questa schizofrenia culturale per uno scrittore?
«Molto».
Ma la lingua che lei chiama madre, paterna o prima lingua è lo spagnolo?
«Sì, ma quando ho vissuto in Olanda andavo in una scuola britannica e nella mia testa c’è stata una sostituzione totale. Io preferisco l’inglese. Lo uso più spesso, gli ultimi due libri li ho scritti direttamente in inglese. Leggo quasi sempre in inglese. E stessa cosa per la tv. Parlo con mia figlia in inglese. Quindi, in questo senso, sono anche uno straniero nella mia lingua. Per ora sono innamorato, come lo sono sempre stato, delle possibilità offerte dall’inglese e molto contrario allo spagnolo. Sono un nemico della mia stessa lingua».
Questa inimicizia è molto utile per uno scrittore, perché lei... anzi tu sei sempre sulla difensiva.
«Credo che per uno scrittore la lingua si presenti sempre come un qualcosa di ostile, no? A me piace molto la teoria di William Burroughs, perché adoro le teorie senza fondamento o prove a supporto, che dice cheportiamo la lingua dentro di noi come se fosse un altro essere, una specie di alieno che vive dentro di noi e parla per noi. Questo rapporto dove quello che senti più tuo, questa voce che ti rimbalza in testa, ti sembra un qualcosa di estraneo ed esterno, secondo me è un qualcosa di molto fertile quando si lavora con la letteratura».
Hai cominciato a renderti conto di questo rapporto con i libri da giovanissimo?
«Mi sembra che William Burroughsabbia detto che per scrivere bisogna essere in qualche modo non umani. E questa non-umanità si vede nei bei libri che sembrano dei prodotti non creati dalla nostra specie ma che ci sono pervenuti da un luogo più profondo, più lontano. Sono gli autori che continuano a sedurmi, e questo sin da bambino, però non ho scritto una parola fino ai ventiquattro o venticinque anni».
E cosa leggevi da bambino?
«Sono cresciuto leggendo autori come Douglas Adams, scrittoreinglese di fantascienza, tutt’oggi a volte mi rendo conto che magari sto avendo una buona idea e poi mi dico, ah no, l’ho letta sullaGuida galattica per gli autostoppisti. Con Roald Dahl, io ho una perversione che sono sicuro corrisponda a qualche perversione che anche questo autore aveva ai suoi tempi, non l’ho verificato, ma a me Roald Dahl dava nuove sensazioni del mondo. Dicevo sempre: gli adulti questo non lo sanno, no? Cioè, le streghe esistono, lo so, le ho viste, sono fuggito da loro.
Streghe e stregoni... I mostri esistono. E quindi è ovvio che tante opere come quelle di Tolkien per me...
Ricordo quella prima lettura de Il Signore degli anelli fatta da un’insegnante bionda e bella. È stato un innamoramento che dura tutta una vita».
Gli autori che hai menzionato finora sono tutti autori di finzione.
Quando hai cominciato a leggere romanzi scientifici?
«È avvenuto molto dopo. Credo di aver avuto un disamoramento totalea 30 anni nei confronti del senso del mondo descritto dal romanzo di finzione tradizionale, all’improvviso, perché ho avuto un disamoramento molto grande nei confronti della lingua, della parte di realtà che ci mostra. Ho perso la capacità di leggere, non era un danno biologico, riuscivo a trarne un senso, ma quel senso che mi si presentava, ciò che leggevo, mi sembrava ridicolo. A ogni storia di finzione che leggevo mi sentivo un po’ come quei bambini a cui parlano dei Re Magi o di Babbo Natale quando ormai non ci credono più. Per me è arrivato un momento in cui mi sono innamorato del mondo e non della letteratura. In questo momento il mio libro preferito da leggere è di Plinio il Vecchio. Ci sono quei meravigliosi paragrafi in cui comincia a parlare di un cavallo, poi di un cavallo famoso e di come si riproducono i cavalli, poi ti dice qualcos’altro seguito da tre cose che sai bene che sono false e poi te ne dice una quarta e pensi: “Ma questa è una trama assurda!”. Questo è il mio progetto personale, presentare le verità del mondo ma dando loro una certa meraviglia, una meraviglia che gli appartiene e che abbiamo perso».
Ti sento parlare e percepisco un’enorme contraddizione tra ciò che mi dici e la lettura del tuo ultimo libro, l’ho letto pensando che questa non è finzione, tutti i fatti che presenti sono veritieri. Però, sotto questa narrazione veritiera, scientifica, c’è la testimonianza di qualcuno che ci dice che non capiamo questa realtà. È ciò che diceva Stephen Hawking, che poteva analizzare le leggi dell’universo, le più grandi, le più piccole ma comunque non le capiva.
«Per me le contraddizioni sono fondamentali, sono una persona contraddittoria che cerca di fare una letteratura assolutamente contraddittoria che sorge dai paradossi. Ciò che mi attrae sono proprio gli aspetti del vero e del non vero e dell’immaginazione che contengano un paradosso nel cuore, no? Non mi interessa separare questi aspetti. Gli elementi di finzione in Quando abbiamo smesso di capire il mondo sono abbastanza sottili e di vario genere, sono diversi. In inglese si direbbe to tie a bow, cioè prendere un pacchetto e infiocchettarlo. E quindi nel testo c’è un abbellimento.
In altre parti del libro l’operazione è diversa, è un assemblaggio, no? Due storie che sono abbastanza reali prese separatamente, ma io stabilisco un collegamento che nonc’è mai stato e cambio il senso di tutto».
Vedo nella tua narrazione la lingua dei mistici. E percepisco che in tutto il tuo libro c’è questo paradosso di descrivere la scienza e allo stesso tempo non descriverla, sapere che c’è un elemento essenziale che non possiamo comprendere.
«È proprio ciò che mi interessa. Mi pare di essere sincero in questo, io uso la scienza come una scusa, ma tutto il libro in realtà è una trappola.
Penso che non ci sia altro che mi interessi tanto quanto il misticismo.
Tuttavia, non si può comunicare il misticismo, è molto difficile, no?
Perché si entra in un labirinto dove la ragione non serve, bisogna abbandonarla per entrarci. Il grande trucco della finzione è che ti offre una sensazione meravigliosa del mondo, che pulsa, che è viva e che tuttavia si perde molto rapidamente. E quindi in questo, sì, cerco di essere onesto, uso la scienza per seguire le orme dello spirito man mano che si allontana da noi».
Io ho finito il tuo libro e subito mi è venuta alla mente l’ultima frase del saggio di Borges “La muraglia e i libri”. Te la ricordi? Perché credo che definisca il tuo stile. Borges sostiene che forse il fatto estetico rappresenta l’imminenza di una rivelazione che non avviene.
«È questo il mio progetto, assolutamente sì. Come dice Bolaño, tutto ciò che facciamo è solo una nota a piè di pagina di Borges. Sai che il mostro è lì ma non lo puoi mostrare.
Sai che c’è una verità che si contempla a occhi chiusi e che si perde quando si aprono. Sai che c’è un’esperienza che viene tradita quando viene tramutata in parole.
Ma io penso che tale rivelazione sia a portata di mano e che sia un obbligo personale. Dirigersi verso tale rivelazione fa parte dell’educazione di ogni essere umano. Magari l’avessimo nel momento giusto, perché se arriva al momento sbagliato, ti distrugge. Ed è ciò che ha avuto Borges. E nessuno qui può dubitare che Borges abbia avuto l’Aleph tra le sue mani».
Dopo aver letto il tuo ultimo libro ho notato che il tema era lo stesso dei tuoi due primi libri, la raccolta di racconti e l’altro romanzo. Pensi che ciò che stai scrivendo ora sia sempre sullo stesso tema o hai cambiato percorso?
«Mi sono impegnato a scrivere lo stesso libro fino alla morte perché credo nell’ossessione, credo nelle idee fisse. Non credo in quella forma di letteratura in cui gli autori saltano da un libro all’altro. Detto questo, e come al solito mi contraddico, chissà, forse nel prossimo libro guarderò da un’altra parte. Tuttavia, ciò che non si perde è l’ossessione per lo spirito che sentiamo. Dare una veste al mistero in modo da renderlo visibile. Non importa quante vesti gli diamo, sfuggirà sempre. E se riuscissimo a incatenarlo in un libro?
Brucerebbe il mondo, così come è accaduto per il Corano o per la Bibbia. Per cui penso che fallire, essere limitati e provare sempre a far qualcosa di impossibile e oltre le proprie possibilità sia ciò che garantisce la sicurezza del tutto».