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 2022  giugno 01 Mercoledì calendario

Il Libano ha fame

«Quando hai fame e nessuno è al tuo fianco o ti rassegni o provi a scappare via».
Susanna Jamgothian vive al quinto piano di una casa di Mar Mikhael, Beirut, che odora ancora di vernice fresca. Per riparare i danni dell’esplosione del porto dell’agosto 2020 ha impiegato quasi due anni e metà dei suoi risparmi. L’altra metà l’ha usata negli ultimi mesi per curare suo marito, morto di un cancro al fegato a marzo dopo aver subito tre operazioni. L’ultima, il tentativo disperato di un’operazione che gli allungasse la vita, è costato venti milioni di lire libanesi per l’ospedale governativo e mille dollari direttamente al chirurgo. Prima hanno pagato, poi hanno potuto ricoverare suo marito. In Libano, dice, se ti ammali o paghi o muori.
«In meno di tre anni abbiamo vissuto quattro crisi, quella economica dopo le proteste del 2019, l’esplosione, la pandemia e infine la guerra in Ucraina che ha fatto aumentare di nuovo tutto. Sappiamo dove e quando sono iniziati i nostri problemi ma non sappiamo se e quando finiranno».
Susanna ha verniciato le pareti e ha di nuovo le finestre, ma non ha ancora potuto ricomprare il frigorifero. Il poco cibo che ha è in una dispensa, la passata di pomodoro, qualche scatola di tonno, tutto costa venti volte più di pochi mesi fa, e poi il pane, un semplice manaush, che prima costava mille lire libanesi e oggi ne costa venticinquemila.
L’onda lunga della guerra lontana è arrivata anche qui, in un paese travolto da una crisi finanziaria senza precedenti che ha ridotto del 95% il valore della lira libanese sul dollaro, dalle conseguenze dell’esplosione che ha provocato 4 miliardi di danni, dalla gestione di due milioni di rifugiati siriani.
Oggi ad aggiungersi c’è la crisi alimentare, per questo Susanna ha detto ai suoi figli di 30 e 35 anni di andare via, provare a scappare prima di trovarsi in fila a fare la coda per il pane.
«Non è il futuro che immaginavo per loro, non voglio vederli elemosinare aiuti per mangiare».
Prima della crisi, quando i prezzi della farina aumentavano troppo, i governi attingevano alle riserve di grano immagazzinate in enormi silos per evitare di dover acquistare a prezzi gonfiati, ma quando migliaia di tonnellate di nitrato di ammonio sono esplose nel porto di Beirut uccidendo più di 250 persone e danneggiando 6.000 edifici, l’esplosione ha anche distrutto i silos che contenevano le uniche scorte di grano del paese. Fino a febbraio, inizio della guerra in Ucraina, oltre il 95% delle esportazioni totali di cereali, grano e mais dell’Ucraina veniva spedito attraverso il Mar Nero e la metà di queste esportazioni andava ai paesi del Medio Oriente e del Nord Africa. Quel condotto vitale, dopo che porti ucraini sono stati attaccati dall’esercito russo, è chiuso, soffocando il commercio marittimo dell’Ucraina da cui il Libano dipendeva, importando il 66% del grano di cui ha bisogno dall’Ucraina e il 12% dalla Russia.
«Siamo al centro di una tempesta perfetta. Era intorno a noi da anni, dall’inizio della guerra siriana, la caduta è stata lenta ma inarrestabile e ora facciamo i conti con una crisi alimentare che non sappiamo arginare». Walid Atallah è a capo di Wooden Bakery, una delle principali aziende libanesi di produzione di pane, cammina nei reparti mostrando la lavorazione dei quaranta tipi di pane che ogni giorno e ogni notte escono per essere distribuiti nel paese. Un volume di produzione ridotto già del 40% perché in poco più di tre mesi sono cambiate le abitudini alimentari delle persone.
«Quando è iniziata la crisi finanziaria, nel 2019 – dice Walid Atallah – il Libano aveva scorte di grano per sei mesi, ogni volta che diminuivano, ne venivano acquistate altre a compensazione dai nostri principali fornitori, la Russia e l’Ucraina».
Dopo il 2019 la Banca Centrale e le banche commerciali libanesi hanno perso liquidità e di pari passo anche la capacità finanziaria di rifornire le scorte di sicurezza. Lo stoccaggio che prima durava sei mesi si è ridotto a quattro. Le tonnellate nei silos prima erano cento poi sono diventate sessanta.
L’esplosione al porto di Beirut ha fatto il resto, distruggendo i silos che, da soli, rappresentavano otto, dieci mesi di scorte di grano per tamponare le emergenze. I silos distrutti sono ancora lì, a memoria della tragedia, le risorse invece sono andate in fumo. Il paese dopo l’esplosione ha cominciato a vivere alla giornata, sopravvivendo una volta ancora ai suoi drammi e alle responsabilità di una classe dirigente corrotta che per la tragedia del porto non ha ancora pagato, e mentre arrancavano, cercando di uscire da una catena di crisi, i libanesi tre mesi fa sono stati raggiunti anche dalle conseguenze globali della guerra russa in Ucraina.
Bujar Hoxha, direttore regionale dell’organizzazione non governativa Care International, spiega che la guerra non rappresenta solo un problema relativo all’acquisto di grano ma che sia diventato più difficile per il Libano anche reperire altri beni essenziali perché paesi terzi come Algeria e Turchia, trattengono le forniture per il consumo interno anziché esportare come prima: «Avevamo due spedizioni di olio vegetale e zucchero dalla Turchia, ma è stato interrotto e questo rende la situazione piuttosto ancor più difficile e se possibile più drammatica».
Qualche settimana fa la Banca mondiale ha approvato un prestito agevolato di 150 milioni di dollari per la sicurezza alimentare nel paese, prestito a un tasso agevolato che dovrebbe fornire sollievo alla stabilità dei prezzi del pane in un paese che come molti in Medio Oriente ha un’economia sussidiata e sovvenziona il prezzo dei beni di prima necessità. La preoccupazione è che il governo possa revocare i sussidi al grano poiché le riserve in valuta estera della Banca Centrale sono scesi a livelli critici. Ogni revoca dei sussidi aumenterebbe i prezzi dei beni al consumo, colpendo i poveri tra i poveri, in un paese in cui più di tre quarti dei sei milioni di abitanti vive al di sotto della soglia di povertà.
«Oggi – dice Walid Atallah – il tempo di sicurezza che prima era di sei mesi si è ridotto a trenta giorni. Se il governo non troverà una soluzione a breve termine, andiamo incontro a una stagione di disordini sociali diversi da quelli del 2019. Allora la rivoluzione aveva una chiave politica, i manifestanti volevano sostituire la classe politica, domani, se non ci sarà farina, se non arriverà il grano, la gente scenderà in piazza per fame».