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 2022  giugno 01 Mercoledì calendario

Adriano Olivetti, politico pasticcione

Il nome di Adriano Olivetti resta legato, nella normale conoscenza, alla produzione di macchine per scrivere: su tutte,«l’Olivetti lettera 22», cara a Indro Montanelli. Il personaggio ebbe però molte anime: edificò un impero industriale a Ivrea e nel Canavese (a lungo in provincia di Aosta), viaggiò, conobbe esperienze estere, fu editore, occupò rilevanti incarichi, tenne rapporti con intellettuali ed economisti, promesse iniziative difficilmente inquadrabili. Ebbe pure un aspetto politico, cui ci si può rifare con la lettura di una nuova biografia stesa da Paolo Bricco (l’autore si è già interessato dell’uomo e della sua industria) col titolo Adriano Olivetti un italiano del Novecento, uscita da Rizzoli.
Figlio di Camillo (ebreo, militante in ambiente massonico), Adriano ebbe una madre considerata ariana dalle leggi razziali, dalle quali scampò pure per essere lui battezzato valdese. Nel dopoguerra si convertì al cattolicesimo: un afflato religioso o almeno spirituale qualificò l’intera sua vita. Si accostò al fascismo, facendo rimarcare di non avere dato rilievi politici e schierandosi a favore del «campo sociale del Corporativismo». Restò vicino al regime negli anni del consenso, insistendo perché la ditta fosse reputata ariana e non avesse a venir messa da parte. Si allontanò nel periodo bellico, quando riparò in Svizzera. Nel dopoguerra stese il manifesto del proprio pensiero con L’ordine politico delle Comunità, avanzando un credo federalista fondato su unità territoriali culturalmente omogenee ed economicamente autonome, subendo l’influsso dell’esperienza diretta vissuta a Ivrea.

Sviluppò i suoi fondamenti teorici in pratiche definibili di socialismo liberale nei rapporti con i dipendenti, incrementando posti di lavoro, asili nido, case popolari. Chiamò vaste messi d’intellettuali, per i quali fondò le Edizioni di Comunità. Si appassionò di urbanistica: presiedette l’Inu (Istituto nazionale di urbanistica) e diresse la rivista Urbanistica. Fece campo a sé, partendo dai rapporti con gli Stati Uniti (sostenne l’interventismo rooseveltiano) per passare alle rotture con la Confindustria (fu avverso al presidente liberale Angelo Costa). Patì sovente delusioni nei rapporti istituzionali, sia sotto il fascismo sia nel dopoguerra diccì. E soffrì i legami familiari, per le ostilità sovente provenienti da fratelli e parenti i quali, disponendo di un’ampia maggioranza aziendale, poco gradivano i suoi sbalzi quasi mistici, e in ogni modo l’impegno economico da lui profuso (a spese proprie, che nel 1958 toccarono il mezzo miliardo di lire).


L’uomo non cessò di appassionarsi alla politica. Qui rivelò pesanti limiti (altri potrebbero essere rilevati in talune decisioni aziendali, per acquisti non certo elogiati e per una discesa finale che portò la ditta in posizione arretrata dopo la sua morte). Non più giovanissimo (era nato nel 1901), si applicò contraddittoriamente a militare in politica. Eppure, come rilevò Norberto Bobbio, predicava l’antipolitica quando decise di schierarsi in politica; era contrario ai partiti ma li ricercava e ne fondò uno; credeva nei piccoli centri e si schierò a livello nazionale. Voleva che il suo credo comunitario trovasse seguito in un’Italia di federalisti, distanti dalla Dc come dal Pci, veleggianti fra la sinistra democristiana e la sinistra in genere, non marxista.

Cercò d’inserirsi in quelle terze forze che andavano dal Pri, alla scissione radicale, al Psdi, fino allo stesso Psi. Tenne rapporti, inutili, con varie formazioni. In verità, lo votava chi riteneva di ottenere interessi grazie ai suoi investimenti: quindi, di fatto, cittadini del Canavese, paghi di far ricorso alle opere da lui intraprese, che nel territorio di sua influenza lo rendevano interlocutore delle istituzioni pubbliche. Nei primi anni cinquanta colse qualche vittoria, limitatamente alle zone piemontesi più vicine. Conquistò nel 1956 il comune di Ivrea, divenendone sindaco, riportò un seggio comunale a Torino e si aggiudicò 36 amministrazioni nel Canavese. Nel 1953 decise di candidarsi al Senato, in tre collegi (Ivrea, ovviamente, poi Biella e Torino centro) con il contrassegno di «Humana Civilitas». Riportò nell’insieme 40mila voti, un inutile 2%, anche se sfiorò il 20% nel collegio di Ivrea, città in cui lo sostenne un votante su due.

Nel 1958 compiè il gran passo, che lo stroncò e gli fece capire quanto l’intellettualismo da lui praticato portasse a una sola conclusione: il fallimento. Volle unire le immaginate comunità nell’intera penisola. Pagò per accordarsi con i contadinisti, che avevano qualche presenza nelle Langhe, e i sardisti. Il suo seguito locale fu l’unico a servirgli, perché i quasi 72mila voti nella circoscrizione di Torino lo mandarono a Roma; ma non vi furono resti, perché l’esito nazionale fu di circa 173mila voti, lontano dal quorum minimo di 300mila. Non tornarono utili i 28mila suffragi in Sardegna. Sotto un certo profilo, andò meglio al Senato: il Movimento di Comunità superò i 101mila voti (nel collegio d’Ivrea il 29%), mancando il quoziente di circa 2.000. In Piemonte Olivetti e la sua Comunità pagarono pure la presenza di consistenti gruppi di autonomisti. Tutto si ridusse, dunque, all’elezione del solo comunitario Olivetti. Giancarlo Lunati, pur suo adepto, lo bollò perché, impacciato, non riusciva a parlare con chiarezza, si agitava e non era efficace.

Non si può spendere molto per l’Olivetti deputato. Intervenne due volte: a favore del gabinetto Fanfani II, astenuto sul Segni II. Presentò un paio di leggi, finite nell’immancabile cassetto. Nel novembre 1959 dovette dimettersi, per incompatibilità con la presidenza di un ente per le case popolari (gliel’aveva procurata Fanfani). Gli succedette il sociologo Franco Ferrarotti, poi transitato nel Psdi. L’amareggiato e sconfitto Olivetti sopravvisse pochi mesi: morì in treno nel febbraio 1960.