Corriere della Sera, 31 maggio 2022
Cosa sarebbe successo se cesare non fosse stato assassinato
Nel 1876 Charles-Bernard Renouvier scrisse un libro assai suggestivo, Ucronia. Tema: quale avrebbe potuto essere la storia di Roma antica, dell’Europa tutta, financo del mondo intero, se Marco Aurelio, al momento della morte (180), non avesse lasciato la successione nelle mani di Commodo? In realtà molti grandi storici, da Edward Gibbon a Jacob Burckhardt, ad Arnold Joseph Toynbee, hanno dedicato pagine ad ipotizzare cosa sarebbe potuto accadere se in alcuni pur piccoli dettagli le cose fossero andate in modo diverso da come effettivamente andarono. Porsi questo genere di domande è doveroso per chi si applichi allo studio del passato. Già due secoli prima di Renouvier, Blaise Pascal aveva fatto scherzosamente osservare che «se il naso di Cleopatra fosse stato più corto, sarebbe cambiata l’intera faccia della Terra». Ma il libro di Renouvier diede vita a un genere letterario particolare, quello delle «ucronie», storie «virtuali», «alternative», «controfattuali». Un genere destinato ad avere un qualche successo. E a provocare fastidio, qui da noi, in Benedetto Croce che – in La storia come pensiero e come azione (Laterza) – lo stroncò senza concedergli neppure la dignità di un gioco.
Eppure, se lo si adotta non per delle estremizzazioni, bensì con le dovute cautele – «per far emergere le voci dissonanti, minoritarie, improbabili», le «eco lontane del contrasto tra un passato unico e i suoi infiniti ma irrealizzati possibili» – quel metodo può dare dei frutti. Come dimostra Luca Fezzi in uno studio impeccabile, assai raffinato, Roma in bilico. Svolte, grandi «se» e scenari alternativi di una storia millenaria che uscirà per Mondadori il 7 giugno. Fezzi si rifà con estremo rigore alle fonti e non dedica neanche un rigo alle ipotesi più fantasiose e bislacche. Anzi. Nel caso, ad esempio, di Annibale Barca il quale, dopo aver sgominato a Canne l’esercito romano (216 a.C.), rinunciò a marciare su Roma si rifà ad un secco parere di Montesquieu. Quel Montesquieu che, nelle Considerazioni sulle cause della grandezza dei Romani e della loro decadenza (Bur), sostenne, in pieno Settecento, che il generale cartaginese nulla avrebbe potuto contro la determinazione e le risorse della Roma del suo tempo. Neanche se qualcosa fosse andata diversamente. Fezzi però prende in seria considerazione quello che secondo Tito Livio (ma anche Marco Porcio Catone) sarebbe stato il suggerimento del comandante della cavalleria cartaginese Maarbale, cioè che, dopo Canne, si dovesse sfruttare il vantaggio e approfittare della sorpresa: Annibale sarebbe stato in grado di apprezzare l’importanza di una vera vittoria «solo quando, entro cinque giorni, avrebbe banchettato sul Campidoglio». Ma davvero erano sufficienti cinque giorni per portare l’esercito nordafricano, stremato da una battaglia assai impegnativa, dalla Puglia a Roma lungo un percorso di 250 miglia? Impossibile, come ha ben spiegato Giovanni Brizzi in Canne. La sconfitta che fece vincere Roma (il Mulino). Semmai Annibale avrebbe potuto tentare l’impresa, l’anno precedente, dopo la vittoria sul lago Trasimeno (217 a.C.), quando si trovava a sole 85 miglia da Roma. Ma anche in quel caso, con ogni probabilità, l’Urbe avrebbe resistito.
Le cose potevano andare in modo diverso solo se, in aiuto di Annibale, fosse giunto Filippo V di Macedonia (238-179 a.C.). Questi – secondo Polibio – aveva avuto precedentemente trattative sia con i Cartaginesi che con i Romani. Quando apprese che questi ultimi erano stati sconfitti sul Trasimeno, decise di intervenire, ritenendo che l’Urbe fosse a tal punto impegnata a leccarsi le ferite da disinteressarsi dei mari. Ma allorché seppe che Roma aveva distaccato una decina di navi per combatterlo, Filippo V si spaventò e cercò rifugio nell’isola di Cefalonia. In realtà era giusto il primo calcolo e Filippo avrebbe avuto ragione facilmente delle imbarcazioni di Roma. Una Roma che conosceva ogni dettaglio degli accordi di Filippo con Annibale. E forse sarebbe stata in grado di parare il colpo.
Più «ricca di fascino» appare a Fezzi l’ipotesi adombrata da Lucio Russo in L’America dimenticata. I rapporti tra le civiltà e un errore di Tolomeo (Mondadori Università). Secondo questa supposizione, se Cartagine fosse sopravvissuta al conflitto con Roma, è possibile che il mondo antico avrebbe potuto raggiungere il Nuovo Continente già allora, ben prima dei vichinghi e di Cristoforo Colombo. Forse gli antichi conoscevano le piccole Antille, a loro note come Isole Fortunate. A scoprirle sarebbero stati proprio i navigatori cartaginesi i quali, come già i Fenici, «avevano sviluppato rotte atlantiche, soprattutto lungo le coste dell’Africa». Poi, però, la distruzione di Cartagine e l’ascesa al trono d’Egitto del filoromano Tolomeo VIII – «le cui scelte politiche sbagliate provocarono il declino della cultura alessandrina» – interruppero quel sogno. Non sapremo mai, scrive Fezzi, «come sarebbe cambiato il mondo se la presenza di un nuovo continente, al di là dell’Atlantico, fosse stata nota ai Romani». Forse, «ben prima dei conquistadores», si sarebbero mossi in quella direzione i due ultimi grandi artefici dell’espansione territoriale della res publica romana: Pompeo e Cesare.
A Cesare è ovviamente dedicato il capitolo più atteso di questo libro. Con alcune marcate «dissonanze» dalle tesi contenute in La morte di Cesare. L’assassinio più famoso della storia (Laterza) di Barry Strauss. E non poche consonanze con quel che è scritto in Cesare. Il dittatore democratico (Laterza) di Luciano Canfora. Ventitré sono i colpi di pugnale inferti al dittatore. Incerto il numero dei cospiratori: si va da sessanta a ottanta. C’è caos nei momenti decisivi. Viene versato anche il sangue di molti congiurati che nella foga si feriscono tra loro. L’attenzione di Fezzi si trattiene su uno degli assassini, Marco Giunio Bruto, «supposto discendente» (una parentela di cui non esiste traccia) di quel Bruto che aveva cacciato l’ultimo re di Roma, Tarquinio il superbo. Quasi impossibile che Cesare considerasse Bruto alla stregua di un figlio. Vero è che Cesare fu quasi certamente amante della madre di Bruto, Servilia. Ma perché Bruto fosse suo figlio naturale, Cesare avrebbe dovuto concepirlo quando aveva poco più di quindici anni. Assai poco probabile.
Le fonti a cui si attiene Fezzi sono quelle tradizionali: Cicerone, Plutarco, Svetonio, Appiano, Cassio Dione e poche altre. Quanto basta ad indagare sui significati reconditi che si celano dietro i loro racconti. I presagi dell’assassinio, come è noto, erano stati molti. La stupefacente scoperta che nel corpo di un’animale sacrificale non c’era il cuore. Il prodigio è riportato in un’opera di Cicerone, Sulla divinazione, scritta appena un anno dopo la morte di Cesare. L’oratore di Arpino aggiunge che l’indomani in un’altra vittima d’un sacrificio «non si trovò il lobo superiore del fegato».
Fezzi registra poi la diffusione dell’incredibile notizia che «le mandrie di cavalli da lui consacrate al passaggio del Rubicone non mangiavano più e piangevano a dirotto». E che significato si può attribuire a quell’insistenza a concedere a Cesare onori su onori, in particolare conferendogli, con le più svariate motivazioni, il titolo di re? Tra queste motivazioni figura quella che, a detta dei «libri Sibyllini», per vincere i Parti (impresa a cui Cesare si accingeva) era necessario, appunto, che al comando ci fosse un monarca. Ma torniamo ai riconoscimenti. Al dittatore, scrive Fezzi, furono offerti onori esagerati, forse anche per renderlo «odioso». Si sparse la voce che volesse trasferire il centro dell’impero in Egitto dove regnava Cleopatra VII «del cui figlio, Cesarione, Cesare aveva però smentito la paternità per via testamentaria». Ci fu chi sostenne che il dittatore voleva risiedere nella sede dell’antica Troia, «per la parentela con la stirpe dei Dardanidi (naturalmente immaginaria)».
Poi ci fu la storia di un diadema posto sulla sua statua: i tribuni lo fecero togliere e Cesare li accusò di aver architettato la messinscena per recargli danno. Di più: li fece esiliare; ma poco dopo accettò che venissero reintegrati. C’è poi Antonio che – nel corso dei «Lupercalia», antichissime celebrazioni in onore di Romolo – gli pone nuovamente, per ben due volte, un diadema sul capo pur senza suoi cenni di approvazione di quel gesto e anzi con decisi gesti di rifiuto. E quel particolare di una delegazione senatoria che si presenta al suo cospetto e di lui che non leva lo sguardo e si mostra intento ad «occuparsi d’altro». Cosa significa? Devono essere infine annoverati un sogno preveggente di sua moglie, Calpurnia; lo strano evento di un uccellino che ha nel becco un ramoscello d’alloro e viene ucciso da altri uccelli; Artemidoro di Cnido che gli consegna un libello (che, però, Cesare non riuscirà a leggere) di denunzia della cospirazione; la profezia sinistra di Spurinna; il licenziamento della guardia ispanica. Segni e presagi sono davvero in grandissima quantità.
Alle «profezie post eventum» e agli «espedienti narrativi», avverte Fezzi, bisogna sempre fare la tara. Però è possibile – come è detto quasi esplicitamente da Plutarco – che Cesare fosse «accecato da un destino di morte». Quasi fosse lui stesso a non voler vivere oltre. Forse a causa dell’aggravamento del male che lo aveva colpito. O forse perché quelli erano momento e modi che lui stesso aveva scelto per morire. Orazio Licandro nel libro Cesare deve morire. L’enigma delle Idi di marzo (Baldini e Castoldi) avanza l’ipotesi che a determinare i tempi della congiura sia stata l’imminenza dell’impresa, di cui si è detto in precedenza, contro i Parti. I nemici di Cesare, ma anche qualche suo amico, temevano che l’eventuale successo in questa guerra avrebbe rafforzato i poteri del dittatore al punto che essi sarebbero diventati tali da mettere definitivamente in crisi le istituzioni repubblicane.
Anche il Bonaparte aveva dedicato attenzione a quest’ultima, mancata avventura di Cesare contro i Parti. Napoleone aveva sostenuto che «se la fortuna che lo aveva favorito durante tredici campagne fosse rimasta ancora al suo fianco», Cesare sarebbe riuscito a portare «l’aquila romana ai bordi dell’Indo». Si trattava, fa notare Fezzi, di «chiudere il cerchio dell’impero, avendo per limite, secondo le conoscenze geografiche dell’epoca, l’Oceano». Un progetto che avrebbe messo Cesare sullo stesso piano di Alessandro. Anche se, scrisse Plutarco, il confronto con i successi conseguiti dal giovanissimo macedone avrebbero indotto Cesare alle lacrime dal momento che lui sarebbe giunto a quel traguardo in età assai più avanzata di quella dell’illustre precessore. In ogni caso, prosegue Fezzi, «una conquista cesariana dell’impero partico avrebbe necessariamente rafforzato i rapporti commerciali già attivi tra Oriente e Occidente aprendoli alle vie carovaniere e in particolar modo ai traffici con la Cina. Ciò che «avrebbe reso forse la successiva “scoperta” di quest’ultima, tra Marco Polo e Matteo Ricci, assai meno sorprendente».
E se poi Cesare fosse tornato a Roma vittorioso, è assai probabile che si sarebbe dedicato alla bonifica delle paludi Pontine (del quale Cicerone parla già nel 45 a.C.). Oltre che a piani di deviazioni del Tevere di cui riferiscono sia Cicerone che Plutarco. Anche se si tratta di due progetti assai diversi tra loro. Quasi certo è che Cesare avrebbe portato a termine il taglio dell’istmo di Corinto che sarebbe stato progettato successivamente anche da Caligola e Nerone. Progettato sì, anche iniziato. Ma portato a termine solo nel 1893. Mentre per le paludi Pontine si sarebbe dovuto attendere gli anni Trenta del Novecento. Quanto alla deviazione del Tevere, non è mai stata realizzata. Meglio così, osserva Fezzi, perché il danno al litorale e alla città di Ostia sarebbe stato maggiore dei benefici.