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 2022  maggio 31 Martedì calendario

In morte di Boris Pahor

Antonio Carioti per il Corriere
Nascere in una regione di frontiera comporta il rischio di sperimentare conflitti etnici violenti, che possono sconvolgere la vita e aprire le porte dell’orrore. Lo scrittore triestino di nazionalità slovena Boris Pahor, scomparso ieri all’età di 108 anni, aveva vissuto proprio quel tipo di esperienza, fino ad essere deportato nei lager nazisti. E aveva pagato la sua appartenenza a una minoranza linguistica anche dopo la guerra, in veste di letterato, poiché il valore delle sue opere, soprattutto in Italia, era stato riconosciuto con un ritardo enorme.
Da questo punto di vista la doppia onorificenza, italiana e slovena, che gli era stata attribuita il 13 luglio 2020, in occasione dell’incontro tra i capi di Stato dei due Paesi per la restituzione alla minoranza slava del Narodni Dom, la sua Casa del popolo bruciata a Trieste dai fascisti cento anni prima, era stata una sorta di risarcimento, per quanto tardivo, riconosciuto a un uomo che si era sempre opposto agli abusi del potere.
Nato a Trieste il 26 agosto 1913 da suddito dell’Impero austro-ungarico, Pahor si era ritrovato bambino sotto la giurisdizione del Regno d’Italia. E a nemmeno sette anni, nel luglio del 1920, aveva assistito appunto al rogo del Narodni Dom triestino.
Subito dopo a Pahor era stata sottratta la lingua madre, perché il fascismo aveva chiuso d’imperio le scuole slave e costretto i loro alunni a frequentare quelle italiane: un autentico trauma. E suo padre, impiegato pubblico, aveva perso il posto di lavoro in quanto aveva rifiutato il trasferimento in Sicilia.
Vennero poi per Boris gli studi nel seminario cattolico di Capodistria, istituzione almeno in parte sottratta alle ingerenze brutali dal fascismo. Una vita all’insegna della doppiezza: fingersi italiano in pubblico e coltivare la lingua e la cultura d’origine di nascosto, assieme ad altri giovani come lui. Quindi l’addio alla prospettiva del sacerdozio e il servizio militare durante la guerra. Dopo l’8 settembre 1943 e la resa italiana agli angloamericani, vennero il ritorno a Trieste e l’adesione alla Resistenza, pagata con l’arresto e la deportazione.
Allora, nel 1944, era cominciato il periodo più tragico della vita di Pahor, con la reclusione in diversi lager, in Francia e in Germania. Essere un poliglotta (oltre all’italiano e allo sloveno, conosceva il tedesco e un po’ di francese) probabilmente gli salvò la vita: venne addetto al compito d’infermiere ed evitò i lavori più pesanti, che riducevano i detenuti a larve umane. Di quei giorni terribili avrebbe scritto nel suo capolavoro Necropoli (1967), definito da Claudio Magris «un’opera magistrale», composta con «limpida sapienza strutturale», per il modo in cui riferisce, «con asciutta precisione fattuale», la realtà agghiacciante dell’«abiezione storica divenuta squallore cosmico, vuoto assoluto».
Nonostante la sua indiscussa eccellenza letteraria, Necropoli, scritto in sloveno, aveva dovuto attendere trent’anni per essere tradotto in italiano nel 1997, dalle semisconosciute e meritorie Edizioni del Consorzio culturale del Monfalconese, e solo nel 2008 era uscito presso un editore di statura nazionale, Fazi, con la prefazione di Magris. All’epoca Pahor aveva già 95 anni e l’anno prima aveva ricevuto a Parigi la Legion d’onore: i suoi ricordi del lager erano usciti in Francia nel 1990. In Italia per lungo tempo solo la piccola casa editrice Nicolodi (poi Zandonai) di Rovereto aveva preso in considerazione le altre sue opere, tra cui Il rogo nel porto (2001), La villa sul lago (2002), Il petalo giallo (2004), Una primavera difficile (2009). Di recente il suo romanzo Oscuramento è uscito presso La nave di Teseo, che riproporrà in giugno la sua autobiografia Figlio di nessuno, scritta con Cristina Battocletti.
Peraltro Pahor per lungo tempo non era stato ben visto neppure in Jugoslavia, poiché si mostrava assai critico verso il regime comunista di Tito. Solo dopo la nascita della Slovenia indipendente, nel 1992, gli era stato assegnato il premio Prešeren, il più importante riconoscimento culturale del Paese.
Del resto anche in Italia, nonostante i molti onori che gli erano stati tributati, compresa la candidatura al Nobel, Pahor era rimasto un personaggio scomodo, sempre pronto a ricordare i soprusi del fascismo. Non faceva sconti a nessuno dei movimenti totalitari, perché nessuno ne aveva fatti a lui e al suo popolo.

Paolo rumiz per la RepubblicaIl vecchio aveva uno sguardo celeste. Una sera che l’ultimo sole entrò fino in fondo alla sua casa, alta sul mare di Trieste, mi diede un’occhiata che parve di adolescente. Poco prima mi aveva aperto il cancello del giardino dopo aver salito dei gradini con passo elastico. Aveva da poco compiuto cent’anni e io non capivo dove stesse il segreto della sua vitalità. Forse nella memoria. Boris Pahor, sloveno d’Italia, classe 1913, ne era il monumento. La teneva viva come un dovere ostinato, che continuava a sobbarcarsi nonostante gli anni. C’era un “demone” di frontiera che gli impediva di mollare, un anima da bastian contrario che lo incollava alla vita. Qualcosa di ribelle che faceva parte del suo vento, del mare e della pietra cui era aggrappata la sua casa.Cento e otto anni. Forse la sua longevità era una vendetta contro il fascismo che gli aveva rubato venticinque anni di vita, impedendogli di parlare la sua lingua. Era il recupero del tempo perduto, la risposta all’ostracismo di chi, nel dopoguerra, non aveva voluto si sapesse che nella città “italianissima” c’era un uomo capace di scrivere in un’altra lingua, tanto più se si ostinava a sbugiardare le amnesie di una terra dove il fascismo aveva dato il peggio di sé. Era il conto da regolare con una fama beffarda, che l’aveva fatto conoscere ovunque nel mondo, ma non nel Paese in cui era nato. Una diga rotta appena a 95 anni, quando il suo capolavoro, Necropoli, sul suo internamento in un lager nazista, era stato “scongelato” dopo 40 anni, e tradotto in Italia.
Ardeva di vita. Cinque anni fa lo accompagnai a ritirare dei soldi nella sua banca sul Carso. Gli tagliò la strada una bella bruna, e lui reagì come un ragazzo. Mi si aggrappò al braccio e disse: «Ah, se avessi solo dieci anni di meno...». Pochi mesi fa gli chiesero un’intervista-video di tre minuti da inoltrare in Germania come ringraziamento per un premio europeo di cui ero compartecipe. Ebbene lui, quasi cieco, seduto in poltrona, parlò per tre minuti esatti senza ripetizioni né sbavature. Alla fine confessò di avere ancora un progetto. EraL’Homme revolté, disse in francese, citando il suo modello, Camus, e il memorabile pamphlet Indignez-vous, scritto da un altro grande vecchio, Stéphane Hessel. Per lui il francese era la lingua della liberazione: dopo il lager era stato spedito a riabilitarsi in terra transalpina, dove una dolce infermiera lo aveva riaccompagnato fra i vivi. «Mi basterebbero due anni per scriverlo», confessò. Difficile distinguere lo scrittore dal mistero della sua longevità.
Ricordava spesso “il fuoco”, quello appiccato nel 1920 dalle camicie nere alla Casa di cultura slovena di Trieste, in un clima fertile di reciproche provocazioni in tutto l’Adriatico orientale. Quelle fiamme viste da bambino erano per lui l’inizio del Male, il collaudo di un’oppressione razziale iniziata in Italia prima che in Germania, che avrebbe portato ai forni di Birkenau. E Trieste era il luogo amato e maledetto, dove si era costruito l’annichilimento degli slavi (“allogeni” che vennero italianizzati anagraficamente a decine di migliaia) e dove Mussolini aveva proclamato le leggi anti- ebraiche in un tripudio di folla osannante.
Su tutto questo scendeva già l’ombra del negazionismo. Si parlava sempre meno dei fascisti e della guerra che avevano provocato, per meglio concentrare la memoria sulle foibe, sulle vendette “slavocomuniste” ai danni di chi aveva perso la guerra. Un meccanismo che usava le vittime troppo spesso innocenti di quelle ritorsioni solo per oscurare il “male” che le aveva precedute e generate. Un modo per usare il “Giorno del ricordo” – caso unico in Europa – non per chiedere scusa, ma per pretendere scuse e mantenere vivo il rancore etnico. Così quando nel 2009 a questo Primo Levi di frontiera il Comune di Trieste offrì la cittadinanza onoraria evitando di nominare il fascismo nella biografia dello scrittore, ilvecchio fiutò l’imbroglio e respinse il dono avvelenato.
«Mi basta che le cose siano chiamate con il loro nome», diceva del cloroformio che ammorbava l’aria. Oggi l’arco completo della sua bibliografia testimonia di una lotta senza quartiere contro l’oblio. Libri come Il rogo nel porto, Il petalo giallo, Piazza Oberdan, Una primavera difficile, oppure Qui è proibito parlare. Tutti diffusi tempestivamente all’estero e invece tradotti in Italia con decenni di ritardo.
Diceva cose scomode. Per esempio che non c’era stato solo l’olocausto degli ebrei, ma la strage degli antinazisti tedeschi, passati anch’essi per il camino, come nel campo di concentramento di Dora in Turingia, dove gli oppositori irriducibili di Hitler erano stati mandati a costruire i missili V2 di Wernher von Braun per finire ghigliottinati a ogni esperimento fallito. Un orrore per il quale lo scienziato poi reclutato dagli americani, ricordava Pahor, non disse mai parole di pentimento.
E che dire dei cognomi cambiati d’ufficio a sessantamila triestini di lingua slovena, cognomi che per dovere di giustizia – chiedeva Pahor – dovevano essere riportati alla forma originale con analogo provvedimento d’ufficio. E i campi di concentramento fascisti, dimenticati, come quelli di Visco e Gonars, dove secondo i responsabili italiani «non si moriva abbastanza» e dove creparono di stenti sloveni e croati. Soprattutto vecchi, donne e bambini, già ridotti a scheletri. E ancora l’assenza di una Norimberga per i criminali di guerra italiani, e di conseguenza l’assenza di una celebrazione ufficiale dedicata non solo alle vittime di slavi o tedeschi, ma anche a quelle del fascismo.
Boris il combattente picchiò duro anche contro il regime di Tito. In un libro intervista del 1975 denunciò il massacro di dodicimila prigionieri di guerra sloveni che avevano militato nella milizia anti-comunista e poi i crimini delle foibe perpetrati a fine conflitto mondiale contro italiani, sloveni, croati e altri. Una provocazione che innescò durissime reazioni da parte del governo jugoslavo e determinarono il bando delle opere di Pahor nella repubblica slovena.
Un uomo-contro fino alla fine. Come quando gli capitò di esprimere timori per la sopravvivenza della madrelingua dopo che la cittadina costiera di Pirano, oggi Slovenia, aveva eletto sindaco un immigrato africano. Un’esternazione condannata da molti e vissuta con imbarazzo dalle autorità di Lubiana. Cercai di difenderlo, e non era facile. Anche perché, conoscendo la sua biografia, comprendevo il timore da lui espresso che il Globale finisse per annichilire una lingua parlata da appena due milioni di abitanti.
Per qualche anno ci fu su questo una densa corrispondenza tra noi. Boris, gli scrissi, come fai a fermare l’immigrazione se noncon i sistemi repressivi che tu per primo hai vissuto sulla tua pelle? Quale alternativa all’adozione dello straniero? E lui rispondeva, amareggiato ma duro, senza temere le contestazioni. «Io razzista?» brontolava. «Nessuno ha mai accusato la polis greca, che si difendeva dai persiani, di essere malata di razzismo per il solo fatto di voler difendere la propria cultura, lingua, tradizione». La trincea della lingua come ultima patria. Per un magnifico contrappasso della storia, proprio la lingua negata dall’oppressore era stata per lui fattore di salvezza nel lager alsaziano narrato in Necropoli. Era stata la conoscenza dello sloveno a consentirgli di capire polacchi, cechi, russi e ucraini, e sollevarsi al rango di infermiere. E poi il francese – Baudelaire, studiato all’università di Padova sotto la guida di Diego Valeri – e l’italiano, perfezionato con la laurea in lettere a Padova. E il tedesco, masticato da bambino, quando Trieste era ancora impero asburgico. Altre scialuppe di salvataggio.
«Dimmi – mi disse camminando su un prato sotto la rocca di Repentabor – ti sembra che io sia nazionalista solo perché voglio ricordare che è esistito il fascismo?». Lo chiedeva perché molti anche a Lubiana gli imputavano di ostinarsi a rimestare il passato. «Mi dicono: perché non lasciare che le nuove generazioni costruiscano il futuro a prescindere da quegli orrori? Io dico che ricordare è un dovere perché altrimenti il passato e l’orrore ritornano. Perché i costruttori del disordine sono pronti a occupare ogni varco di silenzio per manipolare la storia e costruire altri revanscismi su quelle manipolazioni».
Per dire queste cose divenne un nomade oltre i novant’anni. Lo invitavano a parlare da mezza Italia. Duecento inviti in tre anni. Ed è stata per lui la scoperta di un Paese diverso, di un pubblico assetato di sapere, di giovani attenti a non arrendersi a verità preconfezionate. Chi era, si chiedevano i ragazzi, quell’omino dal passo svelto e dall’occhio limpido che diceva cose terribili con la semplicità di un maestro elementare? Da dove gli veniva tanta ostinata forza di combattere? Perché c’era voluto un quasi centenario per sentir chiamare le cose col loro nome? Perché gli altri intellettuali stavano zitti?
Tra di noi parlavamo triestino perché era quella la parlata che avevamo in comune, la felice Terra di nessuno fra le nostre lingue materne così diverse; e poiché il dialetto nostro è autoironico e minimalista, ci dicemmo cose semplici come sul cibo di casa. La jota, i sardoni impanati, il vino Malvasia. Alla fine, il suo nazionalismo culturale si scioglieva nel mondo magnificamente bastardo che era sempre stato il Mediterraneo. «Non posso nemmeno pensare di vivere lontano dal mare», confessò squadrandomi con l’occhio glauco. Aveva cent’anni suonati quando andammo insieme a Saint-Malo in Bretagna, per il più grande festival letterario di Francia. Prese due aerei, poi un treno da Gare Montparnasse, e per tutto il tragitto rispose ai giornalisti in perfetto francese. Una volta sull’oceano, respirò a pieni polmoni l’aria salmastra, ma poi sussurrò: «C’è poco da fare, sono e resto un mediterraneo».
«Pidocchi ci chiamavano a noi sloveni» mormorò un giorno, «gente senza lingua e senza civiltà. Nel ’42 finii soldato in Cirenaica, in una legione chiamata “28 Ottobre”. Ero una cimice, ma in battaglia servivano anche le cimici. Insieme a me c’erano camicie nere; io pensavo fossero soldati speciali e invece erano stati mandati a combattere con cannoncini austriaci della Grande Guerra e moschetti buoni per sparare ai gatti. Erano bersagli garantiti, perché gli inglesi sparavano sul nero, odiavano i fascisti. Al fronte non erano affatto alteri come i fascisti che incendiavano i nostri villaggi... Erano ragazzi anzianotti, gente misera, come miseri eravamo noi sloveni. Servi anche loro. Come noi».

Elena Lowenthal per la StampaAveva ragione da vendere, il nonno centenario di Amos Oz che, per spiegare la propria tenacia di vivere e fors’ anche una inconfessabile paura di andarsene, sosteneva che la morte di un anziano è ingiusta almeno quanto quella di un giovane, se non di più. Più si va avanti negli anni, diceva, più si è fatta l’abitudine alla vita ed è un vero spreco andarsene quando ormai la si è imparata per bene. Argomento ineccepibile, a ben pensarci, quello del nonno di Amos Oz: e non solo per quella faccenda dell’essere avvezzi alla vita. Perché quando se ne va un grande vecchio come Boris Pahor, morto ieri a ben cento e otto anni, il senso di dissipazione, di ingiustizia e di solitudine prende tutti noi che lo abbiamo letto e conosciuto anche soltanto attraverso le sue parole. E davvero sembra assurdo che non sia più su questa terra, anche se o forse proprio perché ci si è fermato così tanto: viene da ribellarsi all’idea che non ci sia più, per quanto morire alla sua età significhi, come per Giobbe, riposarsi dalla vita «sazio di anni».Ci si trova dunque a tirare le somme della sua vertiginosa parabola umana e confrontarsi con l’impossibilità di definirlo, inquadrarlo in qualsivoglia contesto. Perché stare fuori dagli schemi è stata la cifra della sua vita; ogni tentativo per quanto sofisticato di catalogarlo, inserirlo in una corrente politica, letteraria o storica risulta impossibile. Boris Pahor non è mai stato un autore classificabile. In questo e tanto altro sta la sua grandezza.
Aveva sette anni quando nella sua Trieste andò a fuoco il Narodni dom, la casa del popolo della comunità slovena. Era nato in un mondo così lontano da quello che ha attraversato lungo il secolo e più della sua vita: Trieste era allora parte dell’Impero austroungarico, luogo ai margini eppure in qualche modo anche centrale della Mitteleuropa, porto di mare e porta del Mediterraneo, melting pot ante litteram di lingue e identità. Quella slovena, che Pahor portò con sé per tutta la vita, dovette nei decenni successivi fare i conti con una spietata volontà di negazione: non per niente egli aderì sin dal 1938 al movimento antifascista. La doverosa memoria delle foibe e delle violenze titine non può infatti prescindere dai terribili precedenti di un governo fascista prima e un’occupazione nazista dal ’43 in poi uniti a una sistematica repressione linguistica, culturale e fisica della minoranza slovena in quella regione.
Pahor, per parte sua, nel 1940 partì per la Libia con la divisa del Regio Esercito Italiano, poi tornò in Italia. Nel gennaio del 1944 venne arrestato dai collaborazionisti sloveni, rinchiuso in carcere, torturato e infine deportato in Germania. Gli toccò fare la spola fra diversi campi di concentramento, fra cui Bergen Belsen, là dove accolse la Liberazione. Dopo un periodo a Parigi, rientrò nella sua Trieste.
Anche per lui, come per Primo Levi e per Imre Kertesz, il mestiere di scrittore arrivò dentro l’universo concentrazionario. Pahor era già un intellettuale, un pensatore originale e curioso; ma l’ispirazione narrativa sempre intrisa di memoria autobiografica rappresenta il frutto tanto doloroso quanto fertile di quell’esperienza. Come Primo Levi, anche Boris Pahor si salvò grazie a quello che sapeva, a incominciare dalle lingue: lo sloveno e le sue provvidenziali affinità con le lingue del nemico – dal polacco al tedesco, al russo – ma anche l’italiano e il francese. Non per niente, era figlio della Mitteleuropa.
Come Primo Levi e molto più tardi di lui, Pahor ebbe la fama letteraria che si meritava. Necropoli è un capolavoro giunto in Italia, al grande pubblico, soltanto nel 2008 anche se lui l’aveva scritto decenni prima. Il suo modo di fare letteratura della propria autobiografia è davvero unico, indefinibile. La lettura dei suoi libri è un costante esercizio di stupefazione: destabilizza e apre orizzonti mai immaginati. Dopo Necropoli sono arrivati, per Fazi, Bompiani e Nave di Teseo molti altri suoi libri: da La città nel golfo a Qui è proibito parlare. Da Oscuramente a Triangoli Rossi, da Così ho vissuto a Qui è proibito parlare. Il caso ha voluto che Figlio di Nessuno, vera e propria autobiografia, sia in uscita per La Nave di Teseo, con un capitolo inedito, a cura di Cristina Battocletti. Ed è proprio in queste pagine che emerge la inafferrabile complessità di quest’uomo. Non facile, brusco, tanto ironico quanto categorico. Soprattutto, sempre fuori dagli schemi. Tanto antifascista quanto anti titino: la sua Slovenia patì entrambi i regimi e Pahor mai si risparmiò contro le dittature, sempre in nome dell’identità negata. La sua battaglia antifascista divenne infatti cifra di vita al punto da fargli dichiarare che avrebbe accettato l’onorificenza italiana di commendatore solo a condizione che nella motivazione fossero menzionate alcune sue opere dove si raccontano i crimini fascisti e venissero ricordate le «atrocità dell’Italia fascista contro di noi». Ha sempre lamentato l’assenza di un tribunale di Norimberga contro i criminali di guerra italiani. Ma non fu certo meno tenero con il regime di Tito e la sistematica soppressione delle minoranze nella Jugoslavia comunista. Aveva un’idea forte dell’identità e negli ultimi anni le sue parole hanno non di rado destato polemiche feroci, come quando si lamentò dell’elezione di un medico originario del Ghana a sindaco di Pirano, un piccolo comune sulla costa slovena dall’inconfondibile architettura veneziana.
E ora non ci resta che il vuoto lasciato da lui e dalla sua storia. Uomo del Novecento in senso stretto, attraversò il secolo breve (ma lunghissimo) e nulla di quei decenni gli fu risparmiato: Boris Pahor ha incarnato meglio di qualunque altro intellettuale della sua epoca la straordinaria complessità di trovarsi al centro della storia ma al tempo stesso esserne ai margini perché rifiutato, perché estraneo al potere. Una posizione tanto dannata quanto di privilegio: fonte di strazio indicibile, miniera di memoria necessaria. —