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 2022  maggio 31 Martedì calendario

Essere papà e una figata a metà

Cos’è (non dico esattamente, ma almeno approssimativamente) una figata? Un gesto, un’attitudine scenica, un tipo di eleganza, una forma di seduzione? Nell’attesa che il sito della Treccani ci offra una proposta di oggettivazione del concetto (Google si limita a «Cosa eccezionalmente riuscita»: ma chiunque abbia orecchio per la figata non può che considerare restrittiva questa interpretazione), apprendiamo che è alla categoria della figata che Valentino Rossi iscrive il suo ruolo di neo papà.
Il campione è felice, entusiasta, sorpreso e curioso, comprensibilmente innamorato di Giulietta che, come tutti i bambini che fanno ingresso nella vita dei genitori, fin dal primo momento del suo arrivo in casa, ha ridefinito il senso dello spazio e del tempo, erogando freschezza, novità e senso della scoperta (incredibile quanto una casa riesca a riempirsi, quando anche un solo bambino l’abita; e quanto gli oggetti che l’arredano diventino elementi scenografici di ogni suo minimo movimento).
Attraverso la sua bambina, l’ex pilota (me lo immagino, mentre la studia e la osserva come fosse una bellissima isola in cui è finito per caso e si esalta nel perlustrarne ogni angolo) scopre, dunque, la naturalità dell’essere padre, la sua semplicità nell’esercitare il ruolo e ritrovarvisi, la disinvoltura del sentirsi all’altezza di un compito che forse neanche si aspettava potesse risultargli così congeniale. Una dichiarazione piuttosto in controtendenza rispetto all’approccio comprensibilmente ansiogeno con cui molti nuovi genitori affrontano l’esperienza.
Certo, un papà vip se la passa meglio. Rispetto a chi lotta per conservare un lavoro o semplicemente patisce la precarietà dello stare al mondo – specie un mondo che in quest’ultimo sciagurato triennio non ha offerto grandi stimoli alla procreazione, né grandi speranze in genere –, e dunque riflette sui figli le proprie ansie, un genitore che ha raggiunto i massimi livelli nel suo campo ha un’assicurazione sulla paternità che gli facilita – eccome – il lavoro.
L’angoscia, tuttavia, è interclassista e democratica, e sottrarsi all’onere della responsabilità di un’altra persona che hai messo al mondo è esenzione per pochi. Nel senso che tutti, ma proprio nessuno escluso, vivono l’essere genitore con una quota d’ansia. E il paradosso – che poi rappresenta il trucco per superarla – è che è proprio la quota d’angoscia del non essere all’altezza del compito che rende incantevole l’esperienza.
In un vecchio, ottimo romanzo di Anne Tyler, Turista per caso (da cui Lawrence Kasdan trasse il film omonimo con l’indimenticabile William Hurt, da poco scomparso), il protagonista del racconto incrocia il bambino della sua nuova compagna, maltrattato da un gruppo di ragazzini all’uscita di scuola. Mentre lo raggiunge per difenderlo (il gruppo si sta già allontanando: l’umiliazione è già avvenuta), riconosce in sé il sintomo di una paternità (istintiva, cogente) fatta di desiderio di difesa ma anche – soprattutto – di smarrimento.
Scrive Tyler: «Guardando il bambino, Macon pensò che da quel momento non sarebbe mai stato più completamente felice».
Forse, l’essere padri (e madri) è questo: sapere che da quando lo diventi non sarai mai più completamente felice. Perché non potrai esserlo al di fuori della felicità di tuo figlio. E non è poi una consapevolezza così tragica. Avere un figlio è anche accettare di perdere la scena, mettersi di lato, trasmettere il senso dei propri limiti e delle proprie debolezze, alla faccia della retorica dell’infallibilità. Mettere la tua felicità in attesa, insomma (che poi è il senso ultimo dell’amore).
E chissà che non sia questa, la figata.