La Stampa, 31 maggio 2022
Intervista a Tito Boeri
I salari troppo bassi e la povertà, ma non solo. Perché sono tante le disuguaglianze di cui soffre in Paese, avverte Tito Boeri alla vigilia dell’apertura del Festival internazionale dell’economia che inizia oggi a Torino sotto la sua direzione. «Nel Paese – spiega l’economista – come rivela una indagine curata da Nando Pagnoncelli che presenteremo domani (oggi – ndr), c’è molta indignazione per i livelli e la natura delle disuguaglianze che sono nate dopo la pandemia. Sono disuguaglianze diverse, come quelle sulle condizioni di salute o il livello di apprendimento scolastico dopo la chiusura delle scuole, che si aggiungono a quelle che già c’erano in termini di redditi e ricchezza. Disuguaglianze che la gente non è disposta a tollerare soprattutto quando sono slegate dal merito».
Sui salari a causa dell’inflazione siamo all’emergenza...
«L’inflazione è chiaramente una preoccupazione molto forte, soprattutto per coloro che hanno redditi fissi: è uno choc in più che si aggiunge a una situazione già di forte disagio che fa nascere forti preoccupazioni sulla coesione sociale».
E come si evita il peggio?
«Innanzitutto bisogna cercare di contenere queste disuguaglianze, perché hanno raggiunto livelli eccessivi, ma soprattutto bisogna che corrispondano davvero a differenze nell’impegno individuale anziché alla fortuna oppure ai clientelismi. E soprattutto non devono essere legate a discriminazioni, altro tema che al festival tratteremo a vari livelli: discriminazioni di genere (dai divari salariali uomo/donna alle differenze nelle carriere, all’accesso alle posizioni manageriali), etniche, legate alle varie disabilità o agli orientamenti sessuali».
Aumentare le paghe serve a sostenere la domanda allontanando la recessione.
«La prima cosa da fare è preoccuparsi dei livelli più bassi. Per cui in Italia è fondamentale affrontare seriamente la questione del salario minimo. È disdicevole che la cosa venga continuamente rinviata: questo è il momento».
Per i sindacati il riferimento sono i minimi fissati dai contratti nazionali.
«No, non è la soluzione, perché i contratti nazionali coprono una percentuale di lavoratori che è decrescente nel tempo e oggi abbiamo già più di 3 milioni di lavoratori che hanno salari inferiori ai minimi stabiliti dalla contrattazione collettiva. Come in Germania anche in Italia i sindacati dovrebbero prendere atto che, a partire dai servizi, ci sono tantissimi lavoratori non coperti dai contratti collettivi. Per questo dovremmo affidarci ad un salario minimo fissato per legge. Poi è chiaro che dove c’è contrattazione collettiva questo minimo sarà più alto».
Tanti lavoratori precari e in part-time involontario stanno sotto la soglia di povertà.
«Questo è un altro aspetto del problema, che si affronta con altri tipi di strumenti, come il reddito minimo garantito. In Italia esiste il reddito di cittadinanza, che nel momento in cui si introduce un salario minimo andrebbe però ridefinito. I due livelli vanno coordinati tra di loro in modo attento, altrimenti si rischia di fare danni».
Per Confindustria oggi non ci sono margini per gli aumenti.
«Le imprese dovrebbero accettare di legare più strettamente salari e produttività. Ci sono imprese che hanno forte potere contrattuale nei confronti dei propri dipendenti e che li pagano molto meno di questo. Servirebbe a migliorare la produttività del lavoro e i premi di produttività sono in gran parte detassati. Per legare salari e produttività ci vuole più contrattazione decentrata, azienda per azienda. Per tutelare il potere d’acquisto bene sterilizzare gli aumenti delle bollette per chi ha redditi bassi».
Ma quali sono le prospettive per la nostra economia?
«Visto che siamo molto dipendenti dalla Russia la guerra ci fa molto male. Non si può ancora parlare di recessione ma se il conflitto in Ucraina va ancora avanti il rischio c’è tutto. Però se prendiamo per buono quello che ha detto il ministro Cingolani nel giro di un paio d’anni dovremmo riuscire a superare la dipendenza dalla Russia. I governi passati dovrebbero riflettere sui danni che ci hanno fatto rendendoci sempre più dipendenti da loro».
E due anni così li reggiamo?
«Sì, nel momento in cui si affrontano seriamente le disuguaglianze vecchie e nuove di cui soffre il Paese. La tenuta del tessuto sociale passa tutta a qui, come dicevo all’inizio, perché disuguaglianze slegate dal riconoscimento del merito sarebbero odiose e intollerabili. Oltre a questo occorre favorire molto di più l’integrazione di chi rimane indietro lavorando meglio sui minimi, redditi minimi e salari minimi. E poi bisogna porsi il problema della gestione dell’immigrazione, perché il fatto che le imprese fatichino a trovare personale soprattutto nelle attività turistiche è dovuto soprattutto al fatto che abbiamo avuto flussi migratori troppo bassi».
Quanto incidono su questo fenomeno paghe troppo basse e reddito di cittadinanza?
«Sicuramente contano, ma nulla impedisce alle imprese di pagare di più soprattutto dove, come nel turismo, c’è una forte ripresa in corso. Quanto all’Rdc molti percettori hanno bisogno di assistenti sociali e non sono in grado di lavorare. Detto questo, è certamente squilibrato a sfavore delle famiglie con figli, mentre a loro dobbiamo dare più certezze anche per avere tassi di natalità più alti. E poi bisogna riallineare i trasferimenti al costo della vita rispetto alle varie realtà territoriali».
È tutto?
«No, abbiamo anche il problema dell’integrazione dei rifugiati. Dall’Ucraina ne sono arrivati già più di 100 mila, perlopiù donne e bambini, ed abbiamo il dovere di occuparci di loro. Tra gli italiani c’è un moto di solidarietà verso queste persone sfuggite all’aggressione russa e questa potrebbe essere l’occasione giusta per introdurre anche in Italia un percorso verso la cittadinanza legato alla performance scolastica: se questi giovani studiano nelle nostre scuole e vanno bene, si dovrebbe dare loro la possibilità di essere riconosciuti come cittadini italiani». —