La Stampa, 31 maggio 2022
Senza petrolio e gas non ci ritroveremo tutti più poveri
La dipendenza dalle fonti energetiche fossili sta mostrando tutto il suo lato sporco e oscuro con le sanzioni al nostro maggior fornitore di gas (l’Italia dipende dal gas russo per il 40%, gli altri paesi Ue attorno al 25%). Da un lato, poco consapevoli di questioni ambientali, ci si orienta verso altri fornitori, invece di cercare di svincolarsi da quel tipo di fonti: un po’ come cambiare spacciatore per uscire dalla tossicodipendenza. Dall’altro non si prende decisamente l’unica strada possibile, far pagare il prezzo della crisi a chi ha consapevolmente inquinato per decenni, cioè le compagnie petrocarboniere. In tre fasi: 1) facendo cessare ogni finanziamento pubblico (oggi calcolato attorno a 9000 mld di dollari/anno); 2) impedendo di continuare a perforare e a investire nel settore; 3) imponendo un prezzo di riconversione che tenga conto del costo sociale del carbonio.
Questo ultimo punto è particolarmente stringente e sopportabile economicamente dal settore. Ma andiamo per gradi. L’industria petrolifera era a conoscenza del rapporto di causalità tra la sua attività e i cambiamenti climatici già da decenni. Negli Stati Uniti gli scienziati di Humble Oil pubblicarono uno studio che riconosceva i cambiamenti climatici già nel 1957. Sapevano già tutto, oltre 30 anni prima dei rapporti IPCC. Pur sapendolo, però, non hanno preso alcun provvedimento di riconversione serio: la Iea ha calcolato che nel 2019 le spese in conto capitale dell’industria petrolifera alla voce combustibili fossili sono state il 99,2% di quelle totali, mentre solo lo 0,8% è andato alle energie rinnovabili e alle tecnologie a emissioni negative. E qui si inserisce il costo sociale del carbonio (Scc), che misura il valore (in dollari) dell’impatto economico attribuito a ciascuna tonnellata di gas serra rilasciata nell’atmosfera. L’Scc è usato come riferimento da molti governi, dall’Environmental Protection Agency (Epa) e da altre agenzie federali americane per formulare politiche climatiche o per valutare gli impatti dei cambiamenti climatici sull’economia. Attualmente, una stima prudente, ma sicuramente credibile, dell’Scc è di circa 90 dollari per tonnellata di gas serra.
Quanto, dunque, dovrebbero pagare in ricerca e riconversione verso le rinnovabili le compagnie petrolifere, senza fallire (con il conseguente crack economico globale che si scatenerebbe)? Quelle più ricche, che hanno inquinato di più, sarebbero tenute a contribuire per il 3% del danno associato all’Scc. Tale importo verrebbe poi incrementato dello 0,1% ogni anno fino al 2050: la somma massima, allora, ammonterebbe quindi al 6% dell’Scc associato alle loro emissioni. Facciamo un esempio: la compagnia che ha la massima emissione, ha prodotto un danno Scc stimato per 3100 miliardi di dollari. Una cifra ovviamente impossibile da chiedere sull’unghia. Ma il 3% di questa cifra è 90 miliardi di dollari ogni anno. Una cifra possibile da raggiungere semplicemente azzerando gli investimenti nel fossile e investendo nel rinnovabile. Certo, riducendo qualche profitto, ma non ne hanno lucrati abbastanza?
In realtà si è calcolato che il costo necessario per rinnovare tutto l’apparato industriale mondiale basato sulle energie fossili sarà ripagato in soli sette anni dai risparmi che si otterranno con le nuove tecnologie. Il costo necessario a livello globale per creare una nuova infrastruttura industriale sarà astronomico: 73 mila miliardi di dollari. Ogni anno, però, grazie al sistema green possono essere risparmiati 11 mila miliardi di dollari: insomma, senza petrolio e gas non ci ritroveremo tutti più poveri, né dovremo rinunciare al nostro benessere. Qualcuno guadagnerà un po’ meno, ma ce ne faremo rapidamente una ragione. Tutta la comunità scientifica sostiene che, per limitare l’aumento della temperatura a 1,5 °C, le emissioni debbano essere ridotte della metà entro i primi anni 2030, e azzerate entro il 2050. Per questo obiettivo, le emissioni globali di CO2 devono scendere da trentatré miliardi di tonnellate del 2018 a meno di dieci miliardi di tonnellate entro il 2050, per poi andare verso lo zero entro il 2070. L’industria petrolifera dovrebbe cioè ridurre le sue emissioni di circa il 70% entro il 2050. Uno studio pubblicato nel 2015 («Nature») ha stimato che, per mantenere l’aumento della temperatura media mondiale sotto i 2 °C, un terzo delle riserve mondiali di petrolio, la metà delle riserve di gas e l’80% di quelle di carbone dovranno rimanere inutilizzate. Ora sappiamo che si può fare: non si deve dare più spazio ai predatori di futuro.