la Repubblica, 30 maggio 2022
Friedrich Dürrenmatt e la cura svizzera
Nella Svizzera dei primi anni Cinquanta – quella Svizzera grigia che non esiste più, dove mi avventurai per insegnare Letteratura romanza – conobbi Friedrich Dürrenmatt, attraverso Reto Raduolf Bezzola, l’ottimo romanista di cui ero diventato assistente nel 1951. L’avrei rivisto molte volte, e quando subentrò l’amicizia con Federico Fellini, ce ne furono occasioni insieme a Daniel Keel, di Diogenes Verlag, che era diventato il loro editore a Zurigo.
Nel 1951 Berna, dove abitava Dürrenmatt, mi appariva la più grigia, triste e tediosa delle città. Non era difficile credere che rispetto all’affascinante Zurigo, che prometteva già la Svizzera ariosa di oggi, Berna fosse l’ambiente ideale per storie cupe. Né mi meravigliò che Dürrenmatt, il grasso giovanotto molto simpatico e buffonesco che iniziai a leggere allora, vi reagisse con l’istinto grottesco che lo attraeva. Tra gli scrittori svizzeri, nessuno possedeva la sua forza drammatica: l’intelligenza, l’ironia, l’entusiasmo sinistro e farsesco. A Berna Dürrenmatt era stato trapiantato dal padre, pastore protestante del villaggio di Konolfingen, che aveva accettato un posto in città. Friedrich aveva 14 anni, si sentì smarrito. Passava da un luogo che si poteva abbracciare con lo sguardo, a un luogo dove era impossibile avere una visione d’insieme.
Vi scoprì il Labirinto come realtà, e la ribellione. Trovò i motivi della sua pittura, la scena del teatro dal quale iniziò, alternandolo ai racconti, mentre tutt’intorno, aldilà delle montagne, infuriava la guerra. Trentenne, compose un dittico di romanzi dedicati all’investigazione implacabile del commissario Hans Bärlach -Il giudice e il suo boia (1951), eIl sospetto (1953) – dove propose una nuova versione dei detective memorabili di Poe, Chesterton e Borges.
Sopratutto vi metteva in scena la figura che ogni scrittore, a cominciare da Dostoevskij e da Kafka, porta in sé stesso: esigente e inerme, senza potere ma giudice in cielo e in terra, esecutore delle proprie sentenze: uno specchio di Dio, nel quale spia ogni idea del bene e del male. Sia Il giudice e il suo boia, siaIl sospetto, che ora esce per Adelphi nella nuova traduzione di Margherita Belardetti, si svolgono nel dopoguerra, nei mesi invernali del 1948, i quali portano ancora le tracce dei crimini prodotti dal Male scatenato. Bärlach è vecchio, malato di cancro, condannato alla morte a breve, ma proprio per questo affronta la battaglia estrema radunando le fragili forze del Bene, contro il potentissimo Male. Mentre nel primo libro esso si nasconde anche tra le pieghe della Legge e fra i suoi esecutori, nel Sospetto il Male si annida in uno dei maggiori simboli della civilissima Svizzera: la cura clinica. Da secoli il Paese degli orologi, il cuore del mondo limitato e preciso, ha eletto la “cura” come un emblema, con i suoi sanatori e le sue cliniche eleganti, gestite con efficienza scientifica.
Per paradosso, in un gioco di nascondimenti e menzogne, di orrori e rispecchiamenti raccapriccianti, fino all’ultimo respiro, proprio “la cura” è quella crudelissima ed estrema dell’operazione senza anestesia che porta alla morte, come il cancro che divora: morte come “cura” e soluzione finale, praticata dal medico nazista che continua i suoi esperimenti di vivisezione nella lussuosa clinica zurighese dall’amabile nome di Sonnenstein. Significa “Pietra del sole”, nome non immemore, forse, del centro di sterminio dell’ex fortezza di Pirna, attiva nell’efficiente programma di eutanasia dei cosiddetti “pesi morti” nell’Aktion T4.
Il sospetto si apre con un turbamento. La foto del medico del lager di Stutthof, di nome Nehle, riportata su Life del 1945, colpisce Samuel Hungertobel, il chirurgo amico di Bärlach, che l’ha appena operato. Dalla reazione dell’amico, Bärlach comprende che il criminale nazista è ancora vivo, ma si chiama Emmenberger, e dirige la lussuosa clinica di Sonnenstein, dove ospita clienti ricchissimi, che convince a donare i propri beni, prima di operarli senza anestesia in interventi omicidi.
Insieme a Hungertobel, con infinita pazienza, dal suo letto d’ospedale, scioglie a poco a poco gli enigmi che riguardano la doppia identità del chirurgo assassino. Ma la più pericolosa delle indagini non si risolverà senza affrontare il rischio totale. Dovrà farsi egli stesso cavia del criminale. Il dittico del poliziotto ossessionato dal Male, che insegue la giustizia cercando di vedere e di capire, giocando con, e contro il Caso, si svolge intorno al problema della Verità. Sullo sfondo dei casi ambientati nella Svizzera che odia e ama, Dürrenmatt pone sempre in prospettiva anche quello della libertà. Verità, giustizia e libertà sono inscindibili. Mentre dice a Bärlach che il suo piano è stato scoperto, ed è stato ucciso anche Fortschig, che avrebbe dovuto smascherare Emmenberger sul velleitario giornaleApfelschuss ( ossia Mela colpita, rievocazione dell’eroe Guglielmo Tell), la dottoressa della clinica, Edith Marlock, esprime la regola del Potere, cui sottostà la Legge. Lei stessa l’ha seguita quando da vittima di Stutthof è diventata l’amante di Emmenberger.
Poiché tutto è menzogna, potere è ricchezza, godimento dei vizi. Dunque la legge è il vizio, i cannoni, i partiti. Proprio Fortschig aveva detto a Bärlach che la Svizzera lo «ha reso un buffone, un pazzo, un Don Chisciotte che combatte contro i mulini a vento e contro le greggi di pecore». Ma Bärlach, che legge il Don Chisciotte eI viaggi di Gulliver con gli stessi occhi con cui li legge Dürrenmatt, aveva commentato: «Sono contento che tu citi don Chisciotte, è il mio tema preferito. Tutti dobbiamo essere dei don Chisciotte, se appena abbiamo un briciolo di cuore e un po’ di cervello nella zucca. Ma non dobbiamo combattere contro i mulini a vento come quel povero diavolo di cavaliere con la sua corazza di latta. Oggi si tratta di combattere contro mostri giganteschi, oppure contro veri e propri vampiri: belve che non stanno soltanto nei libri di favole o nella fantasia, ma nella realtà. Questo è il nostro compito». Vigilanza, ironia, armi dell’intelligenza e della superiore fantasticheria soccorrono in extremis Bärlach con l’apparizione del gigante ebreo Gulliver, quasi un deus ex machina rivelatore dei casi tragici e vendicatore, scampato alle peripezie dei mondi aberranti dei lager e di quello di Stutthof. Rivelatore di verità, giudice, giustiziere, e liberatore, si fondono nella figura di una fantasticheria pura.
Nel Sospetto, sono proprio gli emblemi stessi della sicurezza, della precisione, della perfezione, di quella “cura” svizzera, che significa “salute” e “libertà” nel ricordo del liberatore Guglielmo Tell, a mostrare il proprio rovescio paradossale nel progetto della salute nazista, della prigione, della morte. Non so come, ma il mio pensiero a questo punto non può allontanarsi del tutto da quella illusione di cura e di salute, che proprio in una clinica di Zurigo incarcerò per sempre il destino del nostro caro amico, voglio dire Federico Fellini, che Dürrenmatt avevapreceduto di tre anni.