la Repubblica, 30 maggio 2022
L’ultimo caffè a un passo dal fronte
L’ultimo sorso di caffè prima del fronte è sempre il più buono. Ha un sapore dolce anche senza lo zucchero. Ha un solo difetto: dura poco. E quando il soldato semplice Artem avrà finito di bere il suo caffè americano, servitogli in un bicchiere di carta come è prassi al Lucky Café, dovrà tornare a Severodonetsk, attualmente il luogo più pericoloso del pianeta. Nell’ultimo brandello della regione di Lugansk che ancora si può chiamare Ucraina, infatti, l’armata russa ha schierato i cannoni più letali.
«Vorrei che non finisse mai», sussurra Artem che gira e rigira il poco liquido nero rimasto nel bicchiere, quasi sperando di riempirlo col pensiero. I pappi dei pioppi soffiati dal vento gli si sono posati sui capelli. «Ho trent’anni, due figli a Poltava, una moglie che ho visto pochissimo… non voglio morire… perché stiamo morendo lassù, dobbiamo dire la verità: stiamo morendo a frotte. Ci massacrano con l’artiglieria. Che diavolo aspettate voi occidentali a mandarci i missili a lungo raggio?». Gli occhi azzurri si riempiono di rabbia. Un istante, poi tornano mesti.
A metà mattina il Lucky Café, unico bar aperto nella città svuotata di Bakhmut, brulica di militari ucraini. Vanno e vengono dalla linea di contatto, una striscia di terra di nessuno che separa i due eserciti in lotta, assottigliandosi, in alcuni punti, a un centinaio di metri. «Col cannocchiale puoi guardare i russi negli occhi...». Arrivano furgoni senza più un vetro intatto e con le fiancate sfregiate, da cui scendono soldati stanchi e sporchi, con le mani nere di terra e lubrificante per kalashnikov. Si appoggiano al bancone, mangiano e si accendono l’ennesima Marlboro col mozzicone dell’altra succhiata fino al filtro. È il loro quarto d’ora di tregua, scherzano con Volodymyr, il matto del quartiere seduto a terra che urla al cielo anatemi e frasi sguaiate.
Le parole oneste e disperate di Artem, fante della 57esima Brigata, non sono passate inascoltate. Uno dei suoi compagni gli tira la manica della mimetica, certe cose non vanno dette, fanno male al morale della truppa che, di questi tempi, non è proprio alto. Nessuno però lo contraddice, Artem ha un argomento roccioso dalla sua. «Nel mio gruppo eravamo in 700, ora siamo 120». Nella tasca dei pantaloni conserva come un santino la scheggia d’acciaio che stava per mandarlo all’altro mondo. «Senza il giubbotto antiproiettili, non sarei qui. Stiamo resistendo, ma non so per quanto ancora riusciremo a tenere la linea di Severodonetsk. Giorni, forse una settimana, non di più».
Il piccolo chiosco della coraggiosa signora Olga, costruito su uno spiazzo di mattoni gialli e aperto finché dura la corrente, ha un nome che per motivi di sicurezza è meglio non pubblicare. Da quando il fronte si è avvicinato, hanno preso a chiamarlo Lucky Café. «Perché se a fine giornata riesci a tornarci tutto intero, vuol dire che sei un bastardo fortunato», ridacchia Stanislav, un pezzo d’uomo alto due metri, il simbolo del tridente ucraino (Trizub) tatuato sul petto e due incisivi d’oro. Olga gli allunga sei panini freddi e 36 lattine di “Non stop”, una bevanda zuccherata con taurina e caffeina. «Come credete che ci reggiamo in piedi?», brontola, mentre si infila su un suv con la scritta “morte ai moscoviti” sulla portiera.
Per i combattenti del Donbass il Lucky Café è il bar delle grandi speranze e degli oscuri presagi. Sufficientemente lontano da Kiev e dalla sua propaganda militare per essere un’osservatorio affidabile per capire come va davvero la guerra. La maggior parte di loro dà ormai per scontata la perdita della regione di Lugansk e ritiene che il vero obiettivo tattico sia rallentare l’avanzata russa il tanto che basta per riorganizzare la linea di difesa di Kramatosk e permettere l’arrivo dei lanciamissili Mlrs della Nato, quelli che sparano proiettili da 155 millimetri lontano 80 chilometri. «La nostra controffensiva partirà a metà giugno». Quando però la domanda include la parola “ritirata”, il sentimento patriottico prevale. «Non è una ritirata, stiamo giocando al tiro alla fune coi russi…», dice senza convinzione Igor, caporale 36enne di Sumy.
La cittadella di Bakhmut, a Sud di Kramatorsk, è un crocevia. A Est si va verso Popasna, e i russi li incontri dopo quattro chilometri. Non si vedono, si sentono: i tonfi dei mortai e dei razzi interrompono le chiacchiere dei soldati per un attimo, il tempo di misurare a orecchio la distanza dal luogo dell’impatto e stabilire che la pausa caffè può proseguire. Andando a Nord, invece, si imbocca l’“autostrada della morte”: una lingua d’asfalto di 67 chilometri che taglia i campi di colza e attraversa una pioggia di bombe. Porta a Lysychansk, la città gemella di Severodonetsk al di qua del fiume che i russi non riescono ad attraversare. «Hanno provato quattro volte con i pontoni, li abbiamo distrutti». A parlare, ora, è il soldato Ivan, di ritorno da Bilohorivka, borgo a metà dell’“autostrada della morte”. «Più che rientrato, direi sopravvissuto…». Si fa dare da Olga una penna e su un tovagliolo scrive quella che assomiglia all’equazione di una disfatta. «I russi hanno tre divisioni di artiglieria. Ogni divisione ha 18 cannoni, ogni cannone spara 160 colpi». Ci perdiamo nel calcolo. «Significa che ogni giorno sono capaci di sparare 8mila proiettili in un’area di quattro chilometri quadrati! Senza le armi pesanti dell’Occidente, non c’è modo di fermarl!». Ivan alza la voce e Volodymyr il matto lo manda al diavolo.
Un ragazzo di nome Lapa arranca verso il bancone, ormai è mezzogiorno. «Ho la tibia spezzata, ma non ho tempo per i dottori: prendo una bottiglia d’acqua e torno a Popasna. Abbiamo due M777 inglesi che ci aiutano: coi nostri cannoni sovietici dovevamo sparare cinque colpi per colpire un bersaglio, con quelli inglesi ne bastano due». Il chiosco di Olga chiude all’improvviso, hanno bombardato la centrale elettrica di Myronivsky e non c’è più corrente in tutta la regione. Il soldato semplice Artem è sparito. Sul bancone del Lucky Café, il suo bicchiere di caffè vuoto.