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 2022  maggio 29 Domenica calendario

Intervista a Suzanne Vega

L e sue canzoni sono un po’ come lei. Dirette, autentiche, storie di vite vere e vissute. Storie di dubbi e di paure, di sconfitte e di desideri rincorsi. Di serenità ritrovate e di gioie inaspettate. A volte le sue storie sono anche legate a vite immaginarie, metafore che partono però sempre e comunque dalla realtà. 
Dietro una voce morbida e suadente – capace di inventare melodie semplici ma di grande forza – e disinteressata alle acrobazie sonore, che si muove con garbo nel registro medio, si cela una ex ragazza, forte, forse disincantata, che continua a seguire il cuore. Senza curarsi delle mode e delle tendenze, dei social e dei trasformismi necessari per stare in classifica. A osservarla, è sempre – ancora – come all’inizio, al tempo del suo primo successo, 1985: mai appariscente, vestita abitualmente di nero, chitarra acustica a tracolla e, come unico vezzo, il rossetto rosso, che risalta su un viso dalla pelle chiara e ancora giovane. Suzanne Vega (1959) – una delle più importanti cantautrici della sua generazione: in pochi non hanno mai canticchiato i suoi Tom’s Diner o Luka... – a luglio sarà in Italia per tre concerti: sabato 16 a Trento, il 17 a Trieste e il 19 a Roma. 

«La Lettura» l’ha raggiunta via Zoom nella sua casa di New York. 
Se è accordo, partiamo dai suoi testi, ai quali pone un’attenzione particolarissima. Legge molta poesia?
«Sì, dà un senso alla mia vita». 
Chi ha letto di più nella sua vita?
«Posso dire di aver letto molto T. S. Eliot, Walt Whitman, Sylvia Plath, E. E. Cummings. A periodi mi fa bene tornare nei loro mondi...». 
Quando scrive una canzone parte da un accordo, un arpeggio, una melodia, o inizia invece dal testo?
«A volte la canzone comincia da un’immagine che mi si crea nella mente. Poi le associo una parola o un accordo che mi possano aiutare a sostenere e sospingere quell’immagine, a renderla più dettagliata, a darle vita autonoma». 
A proposito di accordi, sembra che lei abbia una predilezione per quelli in minore, i più malinconici.
«È vero, ogni tanto però passo a uno in maggiore, per metterci un po’ di gioia...». 
Ci dica come è nata una sua canzone. 
«Per Cracking avevo in mente il titolo. Mi piaceva proprio il suono della parola. È la storia di una donna che non si rende conto che il suo mondo sta crollando». 
Per la musica come si è mossa?
«Ho usato accordi ripetitivi per dare l’idea di un pensiero ossessivo, e li ho messi sotto una melodia invece delicata e fragile che descrive quella donna». 
Su alcuni suoi brani famosi ritorna con versioni nuove. Pensiamo a «Tom’s Diner» per esempio, che fra l’altro è stata reinterpretata da diversi musicisti, anche da Giorgio Moroder e Britney Spears. Che rapporto ha con le sue canzoni, dopo così tanti anni? 
«Le amo ancora. Amo le ripetizioni, sono nella mia natura. Ogni volta che le ricanto è come riportarle in vita. Un po’ come fa un attore con una commedia». 
Molte sue canzoni raccontano New York. Lei ha anche dedicato a questa città il brano «New York is a Woman». 
«Ci vivo da quando ho due anni. L’ho scritta perché nella mia vita ho visto molti uomini innamorarsi di New York». 
Com’è New York?
«A volte è gentile, altre volte non lo è affatto. A lei non interessa. È lunatica. Fa quello che vuole. Forse è per quello che la amiamo così tanto». 
E se dovesse raccontare New York in cinque parole a chi non ci è mai stato?
«Direi: energia, storia, povertà, intelletto, cultura». 
Come era Suzanne Vega da bambina?
«Introversa e timida, Mi piaceva leggere. Avevo pochi amici ma non era sola. C’erano un fratello e due sorelle. Sono la più grande di quattro figli». 
Musicisti anche loro? 
«No, ma tutti artisti. Ho un papà diverso: il loro è scrittore, il mio musicista». 
Lei ha cominciato però con la danza. 
«Sì, ma il mio interesse era rivolto soprattutto alla musica. Recitavo col corpo ciò che mi trasmetteva la musica». 
Che non è un motivo sufficiente per diventare professionisti nella danza...
«Bisognava studiare e ristudiare in ogni dettaglio le coreografie. Non faceva per me. Ho lasciato perdere». 
Com’è cambiato negli anni il suo rapporto con il palcoscenico?
«Mi diverto molto più ora rispetto al passato, quando ero giovane e timida». 
Ha ricordi poco piacevoli?
«Agli inizi suonavo nei pub, non guadagnavo un granché. Poi di punto in bianco ho venduto milioni di copie. Che si sono portati dietro anche una certa pressione professionale».
Che cosa la spaventava? 
«La tensione mi creava a volte vortici di pensieri che non riuscivo a controllare». 
E sul palco invece?
«All’inizio avevo paura di spostarmi da davanti al microfono». 
E oggi invece che cosa succede?
«Ora è tutto diverso». 
Si pone mai domande sulle aspettative del pubblico?
«Direi di no. Loro adesso mi conoscono di più e io conosco loro». 
Cosa si porta sempre in tournée?
«Sono buddhista da molto tempo. In viaggio mi porto una piccola pergamena con le preghiere scritte. Pregare mi serve a tirare fuori la mia natura spirituale». 
La sua carriera dura da quasi quarant’anni, durante i quali ha fatto tantissimi concerti. Adesso come si sente due minuti prima di salire sul palco?
«All’inizio di un tour mi sento un po’ nervosa, a metà sono di solito felice e fiduciosa. Alla fine nostalgica». 
Nell’ottobre del 2020 si è esibita in streaming, senza pubblico per via della pandemia, al Blue Note di New York. Che cos’ha provato?
«Mi è mancata la risposta dai volti del pubblico, dagli occhi, dal linguaggio del loro corpo. Provavo a immaginarmeli nelle loro case. Chi erano? Cosa stavano facendo mentre guardavano il live?».
Come l’ha cambiata la pandemia? 
«Mi colpì che molta gente si potesse comunque rilassare in una situazione del genere e scrivere, comporre, fare cose insomma. Io invece ero ansiosa, per tutto. Per la malattia, per quello che mangiavo. Avevo paura per le persone che amo. Guardavo ciò che accadeva in Italia e sapevo che sarebbe arrivato anche da noi». 

È una persona abitudinaria? 
«Sì, mi piace la routine. Bere il mio tè alla mattina, ascoltare la radio, fare la spesa, cucinare, portare con mio marito fuori Molly, il nostro amato cane». 
Il lavoro è quotidiano?
«Provo a scrivere ogni giorno ma prima ho bisogno di (ri)pulire la mente».
Il cantautore più sottovalutato? 
«Quando conobbi Leonard Cohen, già famoso, lui si sentiva sottovalutato (sorride e solleva le spalle, ndr). Per me il meno riconosciuto è stato Phil Ochs. La sua Changes mi faceva piangere da ragazza».
La sua prima memoria musicale?
«Ero molto piccola e i miei genitori stavano ascoltando musica gitana della Spagna del sud. Era flamenco, mi piaceva il battito delle mani degli esecutori». 
Cosa ascolta normalmente?
«I programmi di una radio di Long Island molto alternativa, che mischia il vecchio rock con altre cose. Ti mette su Tom Petty, Elvis Costello. Mi piace quella roba perché mi riaccende i ricordi. Così come ascolto jazz, John Coltrane e Miles Davis, e la bossa nova di João Gilberto. Il suo modo di suonare la chitarra è unico».
E la musica classica?
«Rachmaninov: passione, emozione, tragedia. E Béla Bartók: asciutto, essenziale, moderno, sinistro e ansioso. Poi ascolto Claude Debussy e Fryderyk Chopin. Mia figlia li suona al pianoforte. Lei sì che sa leggere la musica, mica come me». Ride.