Specchio, 29 maggio 2022
Intervista a Dario Brunori
ario Brunori ride molto. Comincia o finisce ogni risposta a ogni domanda con una risata che mette in questione tutto quello che dice, lo fa tremare, gli toglie nettezza.
È stato a lungo un serio, intimista, lui dice persino «deprimente» musicista indie, poi ha cominciato a prendersi sul faceto, a irridersi, a smontarsi, a toccare corde più lievi.
Ci ha messo anni prima di riuscire a fare quello che cantava, nel 2014, in Arrivederci tristezza: «Scusa mio caro cervello, sei come un fratello, levami questo fardello che voglio provare a volare lassù». Il disco in cui ha preso il volo, si è sollevato, ci ha sollevati, lo ha scritto sei anni dopo quella canzone e l’ha chiamato Cip, perché «se tutti urlano, noi cinguettiamo». Lì, tirava fuori con sicurezza quello che aveva sempre lasciato trasparenza: quanto gli fosse indigesto il lamento, quanto ambisse alla pace, alla festa, talvolta persino alla superficialità, quanto fosse stanco di ragionamenti e quanto, invece, volesse soltanto «sensazioni, sentimenti». In Cip, quel processo di liberazione da obblighi intellettuali, automatismi da underground e complicazioni del pane non è stato più una semplice dichiarazione d’intenti in versi: s’è fatta sostanza. Per questo, era difficile immaginare che il disco successivo sarebbe stato ancora una risatina, una piccola smentita, un alleggerimento e invece, a gennaio, Brunori ha pubblicato un EP, Cheap – acronimo di Cinque hit estemporanee apparentemente punk, che già nel titolo è un’affettuosa parodia di Cip, e nei pezzi è una altrettanto affettuosa parodia di chi li scrive. Questo movimento di continuo, divertito auto sabotaggio, per Brunori è il modo di fare la cosa che meno gli piace fare: cambiare.
Cambiare senza mai perdersi: smentendosi e non snaturandosi.
Quanti Brunori esistono?
«Parecchi. Un condominio».
Litigioso?
«Non più come prima. Con la mia psicologa ci abbiamo lavorato a lungo».
A cosa?
«A trovare un accordo tra tutte le parti, tutti i singoli che mi compongono».
Ha amici immaginari?
«Sì, certo. Il più caro si chiama Mimmo».
E che fa?
«Il giudice. Il mio giudice interiore».
Che cosa pensa Mimmo del tour?
«Si sta divertendo e, come me e tutta la band e lo staff, è decisamente sorpreso dall’energia e dalla partecipazione delle persone».
Aveva dubbi? Chiedo a lei, non a Mimmo.
«Avevo qualche timore. Innanzitutto, queste sono le prime date di un tour finalmente libero e senza limitazioni, dopo i due anni del grande stop, con le chiusure e le restrizioni che in tanti dicevano che avrebbero condizionato a lungo il pubblico. E io un po’ ci avevo creduto: avevo pensato che le persone avrebbero avuto paura dell’aggregazione, del contatto, e anche che si sarebbero impigrite, dimenticandosi la bellezza dei concerti dal vivo. E poi mi spaventavano i palazzetti: temevo fossero non luoghi, che mi rappresentassero poco, che avrebbero tolto anima al concerto. Sono stato smentito su tutto».
Le piace essere smentito.
«Mi piace così tanto che mi smentisco anche da solo».
Ha detto che Cheap è il fratello storto di Cip.
«È un disco che ho fatto giocando. Perché ne avevo voglia. E volevo anche dire che si possono fare le cose in modo semplice, immediato: che un desiderio si può tradurre in azione. Ode al Cantautore è una liberazione da me stesso e dal mio personaggio, così come dall’idea che si debba fare tutto rispettando uno schema preciso di tempistica, lavoro ed elaborazione. L’ho pensato e scritto durante il lockdown, quindi è un disco figlio di una delle cose più importanti che si capiscono quando ci si ferma, e cioè che esiste una maniera meno asfissiante, perfezionista, ossessiva di lavorare: una maniera ugualmente operosa e produttiva. Cip è un disco molto in aria, per aria: me ne serviva uno che mi riportasse a terra».
Cip volava così alto che immaginava che potesse esserci qualcosa di più dell’amore.
«Ho scritto Al di là dell’amore per uscire fuori dal cliché di un certo tipo di sentimentalismo, mieloso e vanesio, a cui veniamo educati. L’amore non è il solo motore dell’agire umano, o almeno non lo è l’amore romantico, che ci viene impartito di fatto come uno scambio obbligato, un dare per ricevere. Io invece penso che sia importante fare le cose anche nel disinteresse: appunto, difendimi al di là dell’amore. Cioè oltre quello che posso darti, e che puoi darmi. E poi, soprattutto, volevo dire che è importante passare dall’amore all’amare. È un’ovvietà, lo so, ma a volte è utile ribadire l’ovvio. Io non so se esiste l’amore, però so che esiste l’amare. Quando le cose diventano un sostantivo, perdono vitalità. Meglio il verbo. Meglio il fare».
C’è una poesia di Vincenzo Cardarelli che dice: La speranza è nell’opera. Io sono un cinico che ha fede in quel che fa.
«Bello. Io invece non sono un cinico e non so se ho fede in quel che faccio: so che è la sola cosa che so fare».
Ha detto che fare questo tour è un dovere.
«Tutto quello che faccio è mosso dal senso del dovere. Sono stato educato in famiglia a sentirlo, a onorarlo sempre. E poi suonare per gli altri è sempre un fatto di grande responsabilità, oltre che, inutile nasconderlo, un enorme piacere egoistico. Ed è bello che due cose così diverse si tengano insieme. Sono belle le contraddizioni, anche se noi le trasformiamo in nevrosi perché non le sappiamo accettare».
Qualche anno fa diceva anche che tutto quello che faceva era mosso dal senso di colpa.
«L’ho superato. Un pochino».
Ha dovuto impegnarsi per mantenere vivo l’amore per il suo lavoro?
«Ho sempre cercato di fare scelte che sapevo che sarei stato in grado di gestire emotivamente. Ho fatto in modo di poter cantare le mie cose in un contesto che andasse oltre una nicchia, e ci sono arrivato dopo un percorso lungo, anche lento, durante il quale ho rafforzato le mie spalle per poter reggere il peso delle cose che andavo a fare. Non sempre ci sono riuscito».
Ma?
«Ma l’amore sono riuscito a mantenerlo intatto perché ho combattuto contro la parte di me che non accetta il cambiamento. Spesso le persone pensano che io abbia raggiunto una certa maturità o consapevolezza rispetto a quello che ho cantato, ma in realtà le mie canzoni sono dei promemoria: per mantenere vivo l’amore è importante saper assecondare il cambiamento e non fissare niente, non investire niente e nessuno di aspettative. Per amare bisogna essere legati alla vita e ciò che è vivo muta costantemente: è importante riuscire ad assecondare questo processo continuo, senza mai volerlo controllare. Non ci si riesce da soli: almeno, a me non è riuscito. Io mi sono circondato di persone che ho scelto con cura, che sapevo che non mi avrebbero mai forzato, che avrebbero rispettato e aspettato le mie metamorfosi, senza indurle».
Cos’è diventato importante, per lei, nell’ultimo anno?
«Non le cose da dire, ma il modo in cui dirle. Il pensiero sul come mi affascina, è il mio grande impegno».
Quante ore al giorno suona?
«Dipende. A volte nessuna. Ultimamente tantissime. Unisco utile al dilettevole: faccio divertire Fiammetta, mia figlia, che ama molto di più la chitarra del pianoforte».
Che differenza c’è tra piano e chitarra?
«Per me il processo creativo è molto influenzato dal tipo di suono. In Come funziona la musica il cantante dei Talking Heads scrive che spesso si pensa che uno vada allo strumento perché sta vivendo una suggestione che poi traduce in una canzone. Invece il meccanismo il più delle volte è ribaltato. Ci si siede al piano senza avere pensieri o emozioni particolari ed è poi il suonare che muove qualcosa: è lo strumento che guida. Il piano mi porta sempre in una certa direzione, quella più fragile del mio cuore, e che abito poco, che non mostro. Suonare la chitarra invece è quasi un gesto d’abitudine. Come il caffè. La prendo e la suono, anche mentre faccio altro. È lo strumento che esprime la mia parte più sanguigna. L’aspetto percussivo, la "cazzimma". Anche se con la chitarra ho scritto cose molto delicate, sono pur sempre nato come chitarrista di provincia che suonava hard rock».
Le manca l’adolescenza?
«A chi non manca? Siamo tutti bloccati lì. E l’altro giorno notavo che tutti i film che ho visto di recente tornavano all’adolescenza o addirittura all’infanzia».
Un grande antropologo suo conterraneo, della Calabria profonda, Vito Teti, dice che la nostalgia è il sentimento che istruisce l’antropologia del presente.
«Ed ha ragione. In parte. La ragione non è mai assoluta. Vede, dico cose ovvie. E mi piace sempre».
Le piacciono i ragazzi che scendono in piazza per la salute del pianeta?
«Loro non sono nostalgici, prima di tutto. E così abbiamo subito trovato un limite alla ragione di Vito Teti. Più vado avanti con l’età e più mi rendi conto che alla loro età è inevitabile semplificare. Non sono molto d’accordo però il tono diventa rabbioso: non ho mai creduto nella possibilità che la rabbia, alla lunga, possa servire. La costruzione passa per la moderazione. Trovo giusto che ci sia un grosso allarme perché siamo già fuori tempo massimo, e questo lo dicono gli esperti, ed è chiaro che esiste una resistenza da parte di un potere che è così anziano da non avere interesse a occuparsi del futuro. Io penso comunque che per combattere battaglie efficaci, non si possa prescindere dal migliorare se stessi. E non sto facendo il solito discorso sull’importanza del partire da sé: sto dicendo che non puoi costruire la pace fuori se hai la guerra dentro».
La paternità la rende più preoccupato del futuro?
«Forse. Tuttavia, se mi fossi preoccupato veramente, un figlio non lo avrei fatto, viste e considerate le condizioni attuali. La spinta che mi ha dato l’essere genitore è stata a scremare le mie fesserie personali, ho rivisto la gerarchia delle mie priorità, e quindi per certi aspetti ho messo molto più a fuoco la mia esistenza. Non avrebbe senso preoccuparmi dopo aver fatto una figlia in piena pandemia: mi voglio occupare, essere più collegato, empatico, attento alla collettività».
L’ultima volta che si è ubriacato?
«Ieri sera?».
Bene!
«Ma poco. Diciamo che ero brillo. Sto facendo una vita da santo, ultimamente. Mi sono detto: Dario, affronta questo tour come se fossi Jovanotti. Salubre ed energico».