il Fatto Quotidiano, 29 maggio 2022
Bianca Berlinguer parla del padre Enrico
Il 25 maggio è ricorso il centenario della nascita di Enrico Berlinguer. A Sassari, sua città natale, si è svolta una giornata di commemorazione alla presenza del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Bianca Berlinguer, giornalista Rai e conduttrice di #Cartabianca, è la sua primogenita. Com’è stato vivere questa ricorrenza?
È stata una giornata speciale anche grazie alla presenza del presidente Mattarella. Mio padre sarebbe stato molto contento del riconoscimento dell’Università di Sassari, dove studiò giurisprudenza senza però laurearsi: gli mancò solo la discussione della tesi, con grande cruccio di mio nonno.
Qual è l’eredità politica più importante lasciata da Enrico Berlinguer?
Quella di aver contribuito a costruire un grande partito popolare di massa, democratico e di sinistra, che ha lottato per migliorare le condizioni di vita e di lavoro di milioni di persone. Un partito che ha trovato una sua strada, diversa e alternativa rispetto a tutti gli altri modelli comunisti, innanzitutto quello sovietico.
Il nome di suo padre è stato evocato in queste settimane di guerra in Ucraina per il suo strappo dall’Urss e per le parole pronunciate in un’intervista a Giampaolo Pansa: ‘mi sento più sicuro sotto l’ombrello della Nato…’.
Mio padre diceva che non c’è niente di più sbagliato che leggere i fatti del presente con la lente del passato. Però è evidente che certe sue scelte, come quella di allontanarsi dal modello sovietico per trovare una via italiana ed europea al comunismo, parlare di democrazia come condizione irrinunciabile e valore universale e guardare all’occidente e non al patto di Varsavia, siano state giuste allora e lungimiranti rispetto al futuro.
Parole coraggiose in quegli anni…
Parlare di democrazia nel 1977 al congresso del Pcus non fu semplice, ma per lui era la cosa giusta da fare. Ricordo l’incidente automobilistico che subì nel 1973 in Bulgaria, dove morì il suo interprete e lui si salvò per miracolo. Papà era convinto che fosse stato un attentato.
Berlinguer moderno, ma anche conservatore…
Lui è stato il leader dei comunisti italiani in un periodo difficile e drammatico: la guerra fredda, la strategia della tensione e il terrorismo. Sentiva il peso della responsabilità di rappresentare milioni di persone che volevano il cambiamento. E nelle sue scelte, anche le più audaci, si preoccupava sempre che l’intero partito lo seguisse. E cosi fu. La differenza con l’oggi è proprio questa: prima c’erano i partiti di massa e i loro leader, non esistevano gli uni senza gli altri, oggi ci sono troppi leader senza seguito.
Perché è ancora così amato?
Perché ha rappresentato un progetto collettivo in cui tantissimi trovavano una propria ragione per lottare e sperare, e perché tuttora gli viene riconosciuto che credeva in ciò che diceva e faceva. Quando nel 1980 andò davanti ai cancelli di Mirafiori forse sapeva già che quella battaglia era persa, ma era giusto essere lì, al fianco degli operai. Dove altro mai sarebbe dovuto essere il segretario del Pci? Era rispettato anche dagli avversari: lo si vide quando Giorgio Almirante volle mettersi in fila da solo, senza scorta, per portare un saluto al feretro a Botteghe Oscure.
Questa settimana è morto Ciriaco De Mita.
Mio padre lo apprezzava perché diceva che stava provando a cambiare la Dc. Quando venne a Padova, in ospedale, papà era morto da poche ore e De Mita era davvero addolorato.
A Padova venne anche Craxi.
Mio fratello Marco, appena ventenne, non volle farlo entrare nella sala di rianimazione e litigò con Giancarlo Pajetta per questo. Mio padre era una persona molto riservata, non avrebbe mai voluto farsi vedere in quelle condizioni. E poi due mesi prima c’erano stati quei fischi, al congresso socialista di Verona così avvallati da Craxi: non mi unisco ai fischi solo perché non so fischiare.
Suo padre arrivò a Padova già molto stanco.
All’epoca tutte le campagne elettorali erano massacranti e tornava sempre a casa stanchissimo. Quella volta non fu diversa dalle altre. Ci lasciammo a Fiumicino, io diretta in Sardegna e lui al nord, mai immaginando che sarebbe stato il nostro ultimo abbraccio. Poi il comizio di Padova e l’emorragia celebrale. I medici ci dissero subito che non c’era più niente da fare.
Che padre è stato Berlinguer?
Affettuoso, comprensivo, a volte estroso. Penso che, giocare con noi quando eravamo piccoli, abbia significato per lui recuperare in parte quella dimensione dell’infanzia che gli era stata negata dal fatto che sua madre iniziò ad ammalarsi quando lui aveva 4 anni per poi morire dieci anni dopo.
I momenti più belli?
Le estati a Stintino, dove i vincoli di sicurezza si allentavano ed eravamo più liberi, per stare tra di noi e con gli amici di sempre. A mio padre piaceva il mare e la vela, ma anche il cinema, i romanzi e le camminate.