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 2022  maggio 28 Sabato calendario

Orsi & tori

Denominatore, questa magica parola. Se cresce il denominatore, cioè il pil italiano, il debito italiano, cioè il numeratore, diventa meno grave. Questa è la strategia, il credo, del presidente Mario Draghi e del ministro dell’economia Daniele Franco, che l’ha ribadita anche nei giorni scorsi a Davos, affermando: «Durante guerre e crisi come quella innescata dai prezzi energetici è più difficile ridurre il rapporto. Ma grazie a stime prudenti del Def, e alla tenuta della crescita, attesa attorno al 3% nel 2022 con un 2,2% ereditato dal 2021, anche nell’anno in corso ci sarà un risultato simile a quello dello scorso anno, cioè una riduzione del debito di oltre 4 punti rispetto al pil».



Il ministro Franco è un tecnico prudente, per la sua stessa carriera prima in Bankitalia poi ragioniere generale dello stato e quindi direttore generale della banca centrale prima di essere chiamato al governo dal suo ex-governatore

Draghi. Ma molti economisti prevedono che si sia sbilanciato molto nel tentativo di essere relativamente ottimista per non peggiorare la svolta negativa in atto. In altre parole, sono molti gli istituti di ricerca a prevedere che il risultato di riduzione del debito in rapporto al pil come quello del 4,5% dell’anno scorso, sia molto ottimista se non irrealistico.

Non oso immaginare cosa possa pensare il maggior consigliere economico di Draghi, il professore della Bocconi, Francesco Giavazzi, che insieme al defunto prof. Alberto Alesina ha scritto negli anni scorsi decine di articoli sul Corriere della Sera per dire che per ridimensionare il debito servivano provvedimenti straordinari di spesa pubblica. Al punto da essere classificato fra gli economisti più rigoristi del mondo, tenendo egli giustamente in conto che in Europa esiste il cosiddetto Patto di stabilità, che prevede addirittura il pareggio di bilancio, anche se trattasi di pia illusione perfino per la Germania (maggiore sostenitrice del Patto), che viaggia ormai intorno al 70% del debito pubblico rispetto al Pil, mentre l’Italia naviga tuttora molto vicino al 150%. Esattamente, nel 2020 il debito era pari al 155,6% del pil per un totale di 2.573,5 miliardi di euro e nel 2021 era salito a 2.678,4 miliardi, con una riduzione di quasi quattro punti rispetto al pil perché appunto c’era stata una significativa crescita.


È ora l’effetto della pandemia e della guerra che hanno fatto ottenere al commissario all’economia della Ue, Paolo Gentiloni, il consenso al rinvio alla fine del 2023 dell’applicazione del Patto di stabilità. E può contribuire al relativo ottimismo del ministro Franco il fatto che, proprio a Davos, il durissimo componente olandese della Bce, Krause Knot, uno dei falchi da cui era volata più di una scintilla verso la presidente della banca centrale Christine Lagarde quando ha ipotizzato la scelta prudente di aumentare i tassi di 2,5 punti a luglio, ha mostrato nei saloni del convegno di appoggiare pienamente la linea prudente della presidente.

Se il ministro Franco e il presidente Draghi credessero che i falchi non volano più, commetterebbero un enorme errore e anche se il loro mandato terminerà fra un anno, prima della scadenza della proroga, non possono illudere il paese che la situazione italiana volge al meglio. C’è da sperare che una pandemia come quella Covid e una guerra come quella scatenata dalla Russia si esauriscano al più presto. Ma appena ciò accadrà, i falchi torneranno a volare e come ha detto con pacatezza, ma nettezza, il commissario Gentiloni l’Italia non potrà più evadere il problema di scegliere una via più netta e decisa per tagliare il debito. Il presidente Draghi è stato non solo banchiere centrale dell’Italia e dell’Europa ma anche banchiere d’affari come deputy chairman di Goldman Sachs e Franco oltre che essere stato ai vertici della banca centrale è stato appunto anche ragioniere generale dello stato; quindi, anch’egli conosce bene lo status delle finanze e delle entrate italiane, afflitte dall’evasione e dalla inefficienza della burocrazia. Come potrebbero mai far loro credere che l’Italia non rischi una crisi profonda, pur senza evocare la Grecia, se la crescita non sarà sostenuta come speravano?


No, ItaliaOggi non crede che Draghi e Franco non sappiano che per mettere in sicurezza il paese si deve fare un’operazione straordinaria come devono fare tutte le aziende del mondo che hanno un debito nettamente superiore al loro fatturato (per l’Italia, il pil) ma hanno asset da poter vendere. Se vendono anche solo una parte del patrimonio danno alle banche la conferma che intendono rientrare del debito. E se lo fa uno stato, che per tirare avanti deve emettere in continuazione titoli di debito da collocare sul mercato, specialmente nel tempo in cui la Bce per volere dei falchi ma anche per razionalità non potrà più comprare quei titoli, il gesto di un taglio netto può far risalire a quanto serve la credibilità e affidabilità dell’Italia sui mercati, scongiurando il default o comunque imposizioni restrittive dalla Ue.

Sto ripetendo noiosamente concetti che i miei tre lettori conoscono a memoria, ma ora è il momento di essere ripetitivi e noiosissimi perché il rischio che il paese corre, specialmente se non ci sarà la crescita ipotizzata dal ministro Franco, è veramente enorme. E proprio per tutto ciò dopo questo Orsi&Tori, MF-Milano Finanza lancerà un«“Manifesto per il taglio netto del debito», consapevoli che una via concreta esiste e i miei tre lettori la conoscono da tempo, ma che vale ripetere nelle sue linee concrete.


Una premessa fondamentale: lo stato è super indebitato mentre gli italiani, ovviamente non tutti gli italiani ma una parte consistente delle famiglie del paese, detengono enorme liquidità. Circa 1.600 miliardi di euro sono liquidi sui conti bancari. Ma il 70-75% dei risparmi investiti sono in investimenti esteri, contribuendo così allo sviluppo delle economie estere. Basterebbero questi dati per capire che c’è l’urgente necessità di interventi adeguati in due direzioni:

1) Recuperare per investimenti italiani almeno la metà di quanto oggi è investito all’estero, naturalmente per vie assolutamente regolari, ci mancherebbe;

2) in più stimolare la grande liquidità ora sui conti a essere investita nell’economia italiana: se ciò avvenisse, allora sì che il denominatore potrebbe ridimensionare il rapporto drammatico fra debito pubblico e prodotto interno lordo.


Come si possono raggiungere questi due obbiettivi? Per capirlo, occorre descrivere le cause del fenomeno finora negativo, che per tutti e due i filoni ha una causa principale: la mancanza di un reale e adeguato mercato azionario dove investire i soldi degli italiani. Il paese, che pure fa ancora parte del G7, ha una Borsa principale dove il numero delle società quotate è inferiore addirittura a quello del passato. Per non parlare della capitalizzazione. E in larga parte essa è rappresentata dalle banche, non dall’industria. C’è chi potrebbe osservare che ciò è l’inevitabile effetto della struttura produttiva del paese, dove il sistema si regge sulle pmi. Per le pmi da oltre 10 anni c’è un mercato ad hoc: si chiamava Aim, come quello di Londra dove sono state quotate oltre 3 mila aziende. Ora si chiama Euronext growth Milano, e le poche matricole approdate sul mercato borsistico in generale sono state quotate nell’ex-Aim. Ma in totale sono 174 e in totale capitalizzano 11 miliardi. Bazzecole rispetto alla potenzialità di capitali degli italiani che potrebbero investire in economia reale.


Perché non investono? Prima di tutto perché le aziende quotate sono appunto in numero esiguo rispetto al potenziale delle pmi italiane. In secondo luogo, perché da sempre lo stato fa concorrenza alle pmi, offrendo, a causa del debito soffocante, rendimenti certi, anche se limitati negli ultimi anni, ma soprattutto con un trattamento fiscale incomparabilmente vantaggioso, visto che arriva al 12,5% sui rendimenti e sugli eventuali aumenti di valore dei titoli.

Da questa situazione appare facile capire quale potrebbe, dovrebbe, essere la ricetta per far crescere il mercato azionario, per farlo arricchire di centinaia e centinaia di nuove società, fra le decine di migliaia che esistono in condizioni adeguate in Italia, in modo che il risparmio rimanga in Italia e che con più investimenti le società quotate possano far crescere il pil.


La ricetta da adottare è semplice ed economicamente valida per tutto il paese e per le entrate dello stato. Agevolare le quotazioni e gli investitori sul piano fiscale. Oggi il massimo che è stato fatto (e che va riconfermato) riguarda uno sconto fiscale sui costi di quotazione, ma è insufficiente da solo a far muovere piccoli e medi imprenditori verso la borsa. Quindi il presidente Draghi e il ministro Franco, che conoscono in profondità i meccanismi di sana incentivazione (non del salario di cittadinanza), dovrebbero studiare un adeguato piano per far sì che arrivino sul mercato migliaia di società e naturalmente decine o centinaia anche al mercato principale. L’agevolazione fiscale non basta. Occorre una grande operazione culturale sia dal lato degli imprenditori che degli investitori. Una profonda diffusione della cultura capitalistica per eccellenza, appunto utilizzando le risorse finanziarie per lo sviluppo attraverso il mercato.

Molti pensano che il governo, non questo, abbia già fatto molto con la creazione dei Pir, cioè dei Piani individuali di investimento. È vero, oggi, dopo disastrosi cambiamenti che avevano fatto fallire l’iniziativa al punto che anche un uomo straordinario come Ennio Doris, che aveva sposato in pieno il progetto e aveva attrezzato Mediolanum non solo per raccogliere risparmio ma anche per accompagnare in borsa decine e decine di società, aveva dovuto dichiarare forfait. Ora suo figlio Massimo, che ha raccolto con competenza il testimone, mi ha confermato pochi giorni fa che se il governo non fa altri cambiamenti, i Pir funzionano e possono aiutare molto il risparmio a rimanere in Italia e le aziende a svilupparsi.


Ma non basta. In parallelo con i Pir, il governo (e nessuno come quello in carica guidato da Draghi e con ministro dell’economia Franco) può studiare un piano virtuoso per lo sviluppo del mercato borsistico, per i risparmiatori, per le aziende e per le casse dello stato. Infatti, agevolare gli investimenti nelle aziende produttive ha l’immediato risvolto di far aumentare i ricavi per le casse dello stato da imposte dirette e indirette. Si tratta di innalzare la soglia dell’attività produttiva, facendo così salire anche, appunto le entrate. Draghi e Franco dovrebbero fare questo regalo al paese. Il tempo c’è e nessuno meglio di loro può varare un piano di sviluppo del mercato azionario. Fra l’altro, le regole del mercato sono sostanzialmente quelle che elaborò il presidente Draghi quando era direttore generale del tesoro.

Ma appunto non basta. A giudizio non solo di ItaliaOggi ma anche di economisti, banchieri, imprenditori, occorre dare ai mercati dei titoli di stato una segnale forte, tagliando di netto almeno 250 miliardi del debito pubblico. La ricetta l’ha messa a punto anche la principale banca italiana attraverso il suo ceo, Carlo Messina, partendo da quell’infausto trasferimento, in nome di un bieco federalismo, di un pacchetto enorme di immobili dello stato, valutato intorno ai 450 milioni, agli enti pubblici locali. L’idea la ebbe il governo guidato da Massimo D’Alema; l’attuazione del trasferimento, in coerenza con le prediche federaliste della Lega, fu del ministro dell’economia del governo Berlusconi, il professor Giulio Tremonti. In molti casi, anche per la complessità delle norme urbanistiche e dei regolamenti degli enti locali, quegli immobili giacciono ancora lì non valorizzati, appresentando non un vantaggio ma un costo per gli enti che li hanno ricevuti.


Si dà il caso che i 2.600 miliardi del debito pubblico contengono anche circa 450 miliardi di debiti degli enti locali. Proprio in considerazione di ciò la prima banca italiana, per affermazione del suo capo Messina, si era offerta di costituire vari fondi immobiliari locali, nei quali trasferire almeno una metà degli immobili passati dallo stato, potendone collocare in maniera efficiente le quote a risparmiatori italiani. Proprio per questo la localizzazione di vari fondi presenta il vantaggio di far avere agli investitori la percezione fisica della valorizzazione degli immobili.

Il ceo Messina si era mosso a fare pubblicamente questa proposta nella piena consapevolezza di due aspetti:

1) che fra gli immobili ora degli enti locali ve ne sono di eccellenti, che se gestiti con criteri privatistici e da manager competenti, possono rendere bene e rivalutarsi significativamente;

2) che proprio la vicinanza con fondi di investimento locali, rassicura gli investitori e ne agevola l’investimento.

Il governo può permettersi di perdere l’occasione di avere un contributo decisivo al taglio del debito da parte della prima banca italiana? Il che naturalmente non impedisce che altre banche, anche locali, possano fare altrettanto. Proprio i banchieri, più di tutti, sentono l’importanza di tagliare il debito pubblico per evitare che il paese entri in un’area di reale pericolo con lo spread che salga alle stelle, essendo già di due punti superiore a quello tedesco. Il governo non può sottrarsi a una risposta.