27 maggio 2022
In morte di Ciriaco De Mita
Avvenire
Le partite a carte da vincere ad ogni costo e il rito dello struscio domenicale. E ancora, la rasatura da Tattalino, il barbiere con il culto del leader, e gli sfottò al cugino oppositore. Vista da Nusco, ora che Ciriaco De Mita è morto, quanto è lontana la prospettiva dell’uomo di Stato avvezzo ai «ragionamenti politici» dispiegati in oltre sessanta anni di attività politica. Lontani i fari della Roma dei palazzi, a prevalere nella narrazione del lutto collettivo non sono i successi pubblici, quanto i ricordi e gli amarcord, tra cordoglio e riconoscenza per quel compaesano che ce l’ha fatta, ma che non ha mai tagliato le radici con la sua terra. Che ha avuto tanto, ma anche tanto ha restituito. Vizi e virtù dell’uomo, prima del politico. Nusco, via del Piano. Il sole che batte forte sul vialone alberato e silenzioso di un paese che offre il meglio di sé nel centro storico medievale che sorge in cima, lontano oltre un chilometro dalla casa dell’ex leader Dc, e dove oggi si celebreranno i funerali. Sono le 11 quando il feretro di Ciriaco De Mita fa ritorno in quella abitazione da cui era uscito circa un mese fa per seguire un protocollo riabilitativo in una clinica di Avellino finalizzato al recupero dall’infortunio domestico che gli aveva procurato la frattura del femore a febbraio. Chi gli è stato vicino fino all’ultimo parla di una fine per consunzione, come se il ’vecchio leone’ democristiano non avesse più voglia di lottare, arrivando finanche a rifiutare il cibo. «Un epilogo naturale dopo tre mesi di lotta» spiega il suo medico curante Pino Rosato. Ad attenderlo ci sono le telecamere, le forze dell’ordine e qualche concittadino (pochi a dire il vero, complici anche l’orario di lavoro e l’afa). Alla spicciolata sono arrivati l’ex ministro Ortensio Zecchino («Con lui finisce un’era») e Giu- seppe Gargani (ambedue esponenti di quella formazione di irpini ribattezzata dei ’magnifici sette’), e poi l’assessore regionale Morcone, il senatore Cosimo Sibilia. Un altro amico storico, il suo farmacista di fiducia e compagno di mille battaglie sul tavolo da gioco, Luigi Cardillo, lo aveva capito già qualche settimana fa che qualcosa non andava per il verso giusto. «L’ultima partita a carte, la sua grande passione, ce la siamo fatta una ventina di giorni fa. Capii che qualcosa non andava perché lui, che avrebbe giocato all’infinito, a un certo mi disse che si sentiva stanco e chiese di finirla là. Poi l’ho sentito l’ultima volta giovedì scorso e me lo ripeté: sono stanco».
E così Nusco si è svegliata con la notizia che non avrebbe mai voluto ricevere. «Oggi abbiamo perso un illustre figlio dell’Italia – dice con voce rotta dalla commozione il vicesindaco Vigilante che al ’Presidente’ come lo chiama, non è mai riuscito a dare del tu -». Per lui bandiere a mezz’asta e lutto cittadino oggi. Affranto il ricordo del suo barbiere, Carlo Mongelli: «Molta gente deve essere grata a De Mita, ma c’è anche gente che non ha avuto niente ed è quella che lo ha stimato di più». Era burbero De Mita. E la puntualità era una delle sue fissazioni: «Era il primo ad arrivare in Comune. A volte riprendeva pure me continua Vigilante – ma poi accompagnava il rimbrotto con la frase ’ti ricordo sempre che siamo amici’». La passione per le carte è ricorrente in tutte le testimonianze: a casa sua, ma anche ai tavolini del bar di piazza Sant’Amato, che facevano immediatamente seguito alla lettura dei giornali, dove De Mita sceglieva i suoi avversari tra amici e vicini di casa che raramente avevano la meglio. «Appena era libero giocavamo – ricorda Cardillo -. Ad Avellino, a Nusco, ma anche a Roma. Si giocava a briscola, tressette, scopa. Facevamo notte. Non voleva mai perdere e si arrabbiava con i presenti se succedeva, diceva che portavano male». Lo ricorda il cugino e storico oppositore in consiglio comunale, Giovanni Marino: «Mi dava della pecora rossa e io gli dicevo ’Ciriachì’, come lo chiamavamo in famiglia, tu in fondo sei leninista. Anche nel mio Pci avresti fatto carriera. Ciao Ciriachì». (r.r.)
Intervista a Il colonnello Domenico Di Petrillo. Angelo Picariello per Avvenire
«Sono sicuro che l’’inchiesta’ del brigatista Antonino Fosso, quando lo arrestai, il 27 gennaio 1988, avesse per obiettivo Ciriaco De Mita. E l’attività che stava svolgendo con altri complici nei pressi della sua abitazione era compatibile con un rapimento». Poteva essere un nuovo caso Moro, progettato dalle Br nel disperato tentativo di rilanciarsi, 10 anni dopo via Fani. Il colonnello Domenico Di Petrillo, al tempo era alla guida della sezione anti-terrorismo dei carabinieri di Roma «che ereditava dal generale Dalla Chiesa un metodo d’indagine innovativo», ricorda. Definita in gergo «la tecnica dell’acchiappo», si avvaleva dei collaboratori di giustizia per la prima volta ’arruolati’ anche in chiave operativa e di consulenza – e di infiltrati, uno dei quali «indicato da Ugo Pecchioli, dirigente del Pci, innescò la ’operazione Olocausto’, durata 10 anni. «Con il metodo dei ’rami verdi’, perseguendo cioè solo i comportamenti penalmente rilevanti, mantenevamo i contatti operativi, utilizzando le altre conoscenze per operazioni successive. In 12 anni così riuscimmo a catturare quasi 500 persone, fra questi 25 terroristi, molti di altissimo livello, come Fosso». Le memorie di Di Petrillo sono state raccolte in un libro, Il lungo assedio, edito da Melampo, ma in questa intervista svela nuovi particolari sul mancato attentato a colui che in quel momento era l’uomo più potente d’Italia.
Che cosa era accaduto?
Fosso era sfuggito alla cattura due volte, una in via Alessandria, vicino Porta Pia, un’altra al quartiere Monteverde. Ma riuscimmo a fotografarlo e individuammo anche la sua auto, a cui tagliammo di notte la cinghia di trasmissione: se si fosse spostato avrebbe dovuto fermarsi subito. Ma quell’auto da lì non si è mai mossa.
Quindi?
Forse sospettò di essere stato pedinato, in ogni caso fece perdere le sue tracce. Fintanto che un collaboratore di giustizia, Walter di Cera, non ci segnalò di averlo visto nei pressi della basilica di Santa Maria Maggiore mentre era in permesso per visita ai familiari. Fosso avendolo riconosciuto come un ’traditore’ lo aveva inseguito, ed era scampato per poco alla vendetta. Questo ci consentì di sapere che Fosso era ancora, o di nuovo, a Roma, forse per portare a termine qualcosa di eclatante. E il giorno dopo...
Lo trovate sotto casa di De Mita.
In realtà io abitavo nei pressi delle Fosse Ardeatine, in via Meropia, e di lì ci muovevamo ogni mattina col capitano Enrico Cataldi, mio collaboratore, per andare al lavoro. All’atto di girare per via della Annunziatella vedo alla fermata dell’autobus, un giovane che mi pare di riconoscere: «Ma è Fosso!», esclamo, e dico all’autista di fare il giro dell’isolato. Confesso di aver pensato di essere io stesso il bersaglio, ma tornando vediamo che Fosso non c’è più, quindi inseguiamo l’autobus in piazza dei Navigatori. Lo vedo scendere, chiamo la Sezione sperando in rinforzi (visto che ci aveva seminato già due volte) mentre lui si dirige in via Odescalchi, dove arrivo in auto, mentre il mio collaboratore corre nella strada parallela. Arrivato all’angolo con via Rufina lo vedo sull’altro marciapiede. Scendo dall’auto, mi nascondo dietro un furgone, lo prendo di sorpresa e gli punto la pistola: «Carabinieri, non ti muovere che ti brucio il cervello!». Gli intimo allora di afferrare la cancellata, lo perquisisco e alla cintola trovo una pistola come la mia, una Beretta 92 S. Era la pistola di uno degli agenti uccisi un anno prima nella rapina di autofinanziamento in via Prati di Papa, che fruttò loro oltre un miliardo di lire. Nel frattempo arriva Cataldi e insieme lo portiamo in caserma.
Quando avete capito che il bersaglio non era lei?
Subito. Dai movimenti capiamo che poteva essere una sua rotazione per riprendere ’servizio’ su un obiettivo preciso, e la postazione in via Rufina verso cui si portava era incompatibile con la mia abitazione e la mia prassi giornaliera. Addosso gli troviamo un foglietto con dei nomi in sigla e degli orari diversi di un quarto d’ora l’uno dall’altro, con dei simboli riferiti a 4 o 5 punti di osservazione. Allora mi viene in mente che l’obiettivo poteva essere De Mita, che abitava in zona, a pochi metri da casa mia, e che in quel periodo era citato in vari documenti brigatisti per il suo piano di riforme. Lo contatto e mi conferma che via della Nunziatella era una delle strade che percorreva spesso, per recarsi in centro o al comitato regionale della Dc in piazza Sturzo, all’Eur. Poi dalle indagini capimmo con certezza di aver evitato un omicidio, o addirittura un sequestro di persona ai suoi danni. La rapina di Prati di Papa dimostrava che le Br a Roma avevano ancora una buona capacità militare e la volontà di tornare in azione ad alti livelli.
Che cosa viene deciso, allora?
De Mita, che sta per divenire presidente del Consiglio, è trasferito subito dopo in una residenza più sicura, in via in Arcione, nell’attico blindato nei pressi di Fontana di Trevi.
De Mita non accettava l’idea che i killer di Ruffilli fossero gli stessi che avevano messo lui nel mirino.
Invece è così. Al tempo era attiva solo la colonna romana d’altronde, che aveva già ucciso Lando Conti a Firenze. Ruffilli era l’uomo delle riforme. L’operazione a Roma era diventata complicata, e allora la portano a termine a Forlì, dove correvano meno rischi. Non a caso a Forlì vengo mandato io: facciamo le indagini e arriviamo ai responsabili, tutti della colonna romana che aveva agito per colpire De Mita.
Giuliano Ferrara per il FoglioIn morte di Ciriaco De Mita, ultranovantenne e tenace sindaco di Nusco, lui che fu sempre sfottuto per accento irpino e appartenenza municipale, oltre che per l’aria da testa d’uovo capace di procurargli la (involontariamente) splendida definizione di intellettuale della Magna Grecia, è stato detto che provò a fare le riforme istituzionali senza mai riuscirci. Non è vero. De Mita durante il suo governo (1988-1989) stipulò con Bettino Craxi il patto di maggioranza che portò, dopo una lunga campagna decisionista di quel leader socialista che era il suo alleato tattico e avversario strategico, all’abolizione del voto segreto sulle leggi di spesa in Parlamento. Fu la principale se non l’unica riforma istituzionale entrata in vigore nella storia intera della Repubblica, a parte l’infausta e codarda abolizione della divisione dei poteri attraverso l’abrogazione del voto delle Camere per procedere a istruttorie sui parlamentari, (articolo 68 della Costituzione). Non sono chiacchiere o cavillosi interna corporis, come si dice, sebbene sia difficile raccontarne le conseguenze a chi allora non c’era. Una volta il Parlamento italiano era fomite di perenne instabilità e i franchi tiratori di ogni parte e da ogni parte erano i padroni del gioco. Il voto segreto era nello Statuto Albertino, per proteggere gli eletti dalle interferenze del Re. Poi fu teorizzato, nonostante i dubbi di molti costituenti e l’indignazione politica di un Luigi Sturzo, per proteggere i parlamentari dai vincoli di partito alla loro libertà di mandato, motivazione pelosa. Nella realtà della storia repubblicana i regolamenti di Camera e Senato a voto segreto generalizzato (è rimasto per i diritti e i voti sulle persone e l’elezione del Quirinale) erano uno strumento accettato e riverito per destabilizzare le maggioranze, sottrarre agli elettori ogni forma di controllo sull’operato degli eletti, blindare la combinazione di trasversalismo trasformista e consociativismo politico che fu lo schema di gioco della Prima Repubblica. De Mita si accordò con Craxi per imporre questa elementare norma westminsteriana, e indusse a più miti consigli sia la Dc sia il riottoso Pci, perché la sua gigantesca rissa con il capo socialista, che divampò nel cuore degli anni Ottanta, fu in realtà un conflitto tra due decisionismi, un genuino scontro di potere e di strategia per diverse visioni dell’Italia e della sua modernizzazione. Nel 1987, quando Craxi denunciò il patto della staffetta e rifiutò di cedere Palazzo Chigi al leader democristiano, dopo tre anni di successi del suo governo, De Mita disse che era “inaffidabile per la democrazia”. Due anni dopo quel giudizio “definitivo” i due siglarono l’intesa che doveva dare gambe e forza di governo alle istituzioni democratiche, sottraendo gli esecutivi alla logica di sistema indecisionista del ricatto e delle pressioni di lobby. Quella riforma fu subito contraddetta dai due che l’avevano varata all’insegna di un patto di potere tra loro che però restò sterile. Come diceva apertamente in colloqui postumi con chi era stato amico e consigliere di Craxi, De Mita non puntava alla solita Italia sgangherata del vecchio proporzionalismo puro, produttore seriale di crisi e governi a ripetizione: la sua ambizione postmorotea, contraddittoria e confusa come sempre nella cultura istituzionale democristiana, era di legittimare un’alternanza in cui i comunisti fossero parte integrante ed egemone del blocco avversario. Per questo collaborava con i socialisti al governo, ma nel gioco di sistema se la intendeva con i comunisti per indebolire le pretese del suo alleato di centrosinistra. Quando nel 1987 Craxi si rese inaffidabile e impedì alla Dc di riprendere la guida dell’esecutivo, contando sul suo successo e sperando in un battesimo elettorale delle proprie ambizioni, De Mita non esitò ad accordarsi con Alessandro Natta, capo del Pci, sotto gli auspici televisivi di Enzo Biagi e dell’establishment anticraxiano e poi antiberlusconiano, per il ricorso alle elezioni anticipate. Al termine di una lunga crisi kolossal, la Dc di De Mita, d’accordo con i comunisti e contro i socialisti, arrivò al punto di proporre Fanfani come premier e poi, dopo la decisione a sorpresa dei socialisti di dare il voto a Fanfani, di votare a dispetto contro la fiducia al loro leader storico per ottenere il voto popolare e sancire la rottura con Craxi. All’opposto Craxi voleva collaborare e competere con la Dc allo scopo di preparare un’alternanza in cui i socialisti fossero in grado di essere la guida del blocco di sinistra, liquidando l’egemonia comunista. Ma sul fatto che l’Italia avesse bisogno di una semplificazione democratica e di una riforma di sistema della governabilità i due leader erano, in modi e con scopi differenti, d’accordo. Il patto ebbe vita breve perché De Mita perse la sua battaglia interna nella Dc e fu defenestrato da Andreotti, Forlani e Gava. E Craxi si chiuse nella logica del pentapartito, aspettando che il pallino del governo gli tornasse in mano. Cosa che non avvenne perché si scatenò l’inferno giudiziario e cominciò la storia trentennale del conflitto con la magistratura, fino agli esiti finali dell’antipolitica e del casino generalizzato a partiti morti e sepolti. Il crollo del Muro di Berlino e la fine della Prima Repubblica coincisero e la sincronia fu tutt’altro che casuale e fu molto significativa. Nonostante il fallimento strategico generale, e il successivo ventennio di berlusconismo e antiberlusconismo, di maggioritario attuato e insieme negato, se l’Italia ha potuto avere un barlume di governabilità con gli esecutivi di Amato, Ciampi, Berlusconi, Prodi, D’Alema, Monti e infine Draghi, dopo la parentesi grottesca del governo populista e antipolitico, lo si deve a una riforma intitolata, con Craxi, a Ciriaco De Mita. Ci fosse ancora il voto segreto sulle leggi di spesa, saremmo membri secondari dell’Unione degli stati del Mediterraneo meridionale, composta di un solo paese, il nostro, la Magna Grecia.