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 2022  maggio 27 Venerdì calendario

La scuola in Italia sforna davvero somari?

Gli studenti sono asini, prima era meglio. No, sono solo cambiati, oggi sono smart. La diatriba sullo stato dell’istruzione in Italia e il livello delle competenze è un intramontabile esercizio. La materia è complessa, i dati sono difficili e contestati, le correnti di pensiero si scontrano quotidianamente. Ma davvero la scuola italiana sforna solo somari? Davvero “prima era meglio”? E che cosa dovrebbe essere migliorato? Inizia qui l’inchiesta a puntate del Fatto Quotidiano, che tra testimonianze, notizie e racconti proverà ai fotografare lo stato dell’istruzione in Italia. Prima tappa: i dati.
L’errore di partenza. Chi è stato sintonizzato sul tema, nei giorni scorsi, si sarà accorto del procurato allarme arrivato da Save the Children. Nel corso di un evento, il presidente della Ong ha detto che in Italia il 51 per cento dei quindicenni non è in grado di comprendere un testo scritto. La percentuale è stata ripresa da molte testate. Esperti, politici e commentatori si sono espressi. In poche ore, però, l’allarme si è ridimensionato: la percentuale era errata. Per un divertente paradosso, qualcuno deve aver fatto una sintesi brutale e imprecisa delle fonti. Si sono così susseguiti fact checking ed editoriali che si opponevano alla cosiddetta “retorica della crisi” che vuole sottovalutare scuola e studenti. Ma, di fatto, cosa dicono i numeri?
Uno su cinque. I test Invalsi, test standardizzati che ogni anno vengono somministrati agli studenti italiani per valutare le loro competenze a scuola, sono per l’Italia fonte primaria. Parliamo con il presidente dell’istituto, Roberto Ricci, che dipende dal ministero dell’Istruzione: “Il dato circolato, il 51 per cento, in realtà, riguarda la matematica: mostra che almeno uno studente su due, al termine delle scuole superiori, non ha raggiunto le competenze previste dopo 13 anni di scuola. In italiano la percentuale è del 44 per cento”. Invalsi distingue due livelli di gravità: il livello 1, che rappresenta gli studenti in forte situazione di fragilità e il livello 2 che include gli studenti che non raggiungono i cosiddetti traguardi ma non sono casi gravi. Il 44 per cento li include entrambi, ma i ragazzi in forte fragilità sono quasi il 24 per cento. “L’interpretazione del dato – continua Ricci – è legata ovviamente alla lettura che se ne vuole dare. Tuttavia mi lasci dire che anche il 24 per cento fa tremare le vene ai polsi. Sono diplomandi: la comprensione del testo è uno dei primi presidi per l’esercizio dei diritti e dei doveri dei cittadini”.
È comunque lo stesso Ricci ad ammettere che i dati raccolti dall’Invalsi, seppur gli unici più estesi e usati in Italia, sono fallibili. “Alcuni giustamente ci dicono che i quiz, essendo standardizzati, colgono solo un aspetto della comprensione del testo. Ed è vero. Ci metterei la firma”. Ma per Ricci questo strumento parziale addirittura sottostimerebbe il dato. “Le domande a risposta aperta sono oggettivamente più complesse. Con test più articolati, i ragazzi che non raggiungono i traguardi aumenterebbero”.
Il limite del dato. Tra chi, sul fronte opposto, da anni rileva le storture di queste misurazioni c’è Roars, gruppo di ricercatori, docenti universitari e scienziati. “Tralasciando i dettagli tecnici legati alla costruzione e alla modellazione statistica – ci spiega Rossella Latempa, docente di Matematica e fisica della redazione di Roars–, potremmo dire che la soglia degli Invalsi è, in un certo senso, arbitraria e che dipende in modo non trasparente dalla metodologia psicometrica che è alla base di misurazioni standardizzate delle abilità latenti degli studenti. In pratica, la descrizione della qualità del nostro sistema di istruzione è affidata a descrizioni di tipo probabilistico e poco trasparenti”. La cosiddetta “dispersione implicita” – che per Invalsi rappresenta la quota di studenti che non raggiungono il livello di competenze minimo previsto (livello 3 nelle prove di italiano e matematica e B1 in Inglese) al termine delle superiori – è uno “pseudo concetto”, appannaggio esclusivo di Invalsi e poco fondato dal punto di vista teorico. “Si presta però a essere un perfetto esempio di ‘intimidazione matematica’ e spesso se ne perde facilmente il controllo”. Il dato, in effetti, come accaduto per Save the Children, può diventare un boomerang “tale da compromettere il credito stesso di Invalsi”. Il timore è che questi test, oltretutto corretti in maniera computerizzata, vengano mal utilizzati per screditare la scuola pubblica, il suo ruolo e il suo metodo “influenzando – conclude Latempa – interessi economici, equilibri politici e riforme istituzionali”.
Concorso in magistratura. Intanto, nelle stesse ore, è emerso un altro dato: il 95 per cento dei candidati dell’ultimo concorso in magistratura è stato bocciato alla prova scritta. Idonei in 220 su 2.797, hanno lasciato già scoperti 90 posti sui 310 a bando. “Se un altro mi avesse raccontato quello che ho letto, non ci avrei creduto – ha detto Luca Poniz, sostituto procuratore a Milano, già presidente dell’Anm, e membro della commissione di concorso. Pur rilevando la presenza di ottimi candidati, ha dovuto ammettere che “alcune centinaia di temi erano francamente imbarazzanti”. Poca confidenza con il ragionamento giuridico, “tanta distanza dagli standard minimi di elaborazione e scrittura” nonostante i candidati siano laureati e abbiano anche il titolo di avvocato o di dottore di ricerca o il diploma di una scuola di specializzazione. “Può darsi che tutto ciò sia anche il precipitato del cambiamento della scuola negli ultimi anni – ha aggiunto Poniz –. Io non ho figli, ma chi li ha racconta che si fanno sempre meno temi e sempre più riassunti, che si usano sempre più i computer e si insiste sempre meno sulla scrittura elaborata. Il risultato si vede: nei temi c’erano difficoltà nell’andare a capo: si impara in terza elementare”.
Il cambiamento. “Fino alla fine degli anni 80, pur essendo intervenuti grossi cambiamenti, la scuola superiore soprattutto è rimasta ancorata a una condizione socioeconomica e culturale legata ai decenni precedenti – spiega il presidente di Invalsi –. Poi, alcuni elementi hanno sparigliato le carte. Il principale è l’aver ritenuto che non valesse più l’idea ‘se non sei adatto a questa scuola, allora fuori’ in favore del ‘tenere tutti dentro trovando la strada adatta’”. Questo, è la lettura, avrebbe cambiato radicalmente lo scenario facendo aumentare la percentuale di chi non raggiunge i traguardi. “Tenere tutti a scuola è un valore fondativo della società e riflette al suo interno le stesse differenze che esistono nella società e tra gli individui”. Intanto, cambiano gli stili di apprendimento e ci si chiede se non sia ora di introdurre competenze nuove. “Ma anche per sviluppare le nuove- coonclude Ricci – serve padronanza della lettura di base, le competenze ‘vecchio stile’. Sono le pietre angolari degli edifici della conoscenza”.