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 2022  maggio 26 Giovedì calendario

Chi è Thierry Breton

Bruxelles. L’Ue autorizza i colossi militari a spendere i soldi dei contribuenti europei per produrre armi da esportare anche in zone di conflitto. Non c’è alcun obbligo di venderle all’interno dell’Unione. Ne avevamo scritto nello speciale del Fatto Economico del 28 marzo, tutto dedicato alla Difesa Ue, oggi lo confermano le risposte che il nostro giornale ha ottenuto dalla Commissione europea.
“Le industrie europee della Difesa mirano ad affermarsi nei mercati internazionali per massimizzare i profitti, cercando nuovi acquirenti soprattutto nelle zone di maggior tensione del mondo”, spiega Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio Opal e di Rete italiana pace e disarmo: “Dovrebbero invece garantire la nostra sicurezza attraverso un vero coordinamento tra i Paesi Ue che hanno il dovere di concordare azioni militari volte a scongiurare le guerre tra le nazioni, anziché alimentarle vendendo armi”. Questo è lo scenario ideale. La realtà è ben diversa: “È chiaro che la competitività industriale e l’aumento dell’export di armi è l’elemento centrale della strategia Ue”, avverte un recente studio dalla Rete europea sul disarmo Enat.
L’industria detta legge. Con la dichiarazione di Versailles adottata a marzo, appena dopo l’attacco di Mosca a Kiev, i leader dei 27 Stati membri si sono impegnati a rafforzare il piano europeo di difesa Strategic Compass (da inserire in ambito Nato). Punto chiave: l’aumento degli investimenti comuni in armamenti, soprattutto per rendersi autonomi dagli Usa. L’utilizzo del bilancio Ue per il settore bellico non è tuttavia soggetto a controllo democratico. L’Europarlamento approva le spese, ma non le finalità strategiche, che sono stabilite dietro le quinte dall’industria stessa che negli ultimi anni è penetrata in modo tentacolare nei palazzi dell’eurocrazia.
In particolare è l’ex lobbista e oggi eurocommissario, Thierry Breton, a dirigere i programmi di finanziamento nel comparto militare. Già nel 2014, quando era a capo di Atos, una società informatica francese coinvolta nel mercato della difesa, Breton aveva proposto ai diversi euro-commissari da lui incontrati all’epoca la creazione del fondo European Defence Fund (Edf) per co-finanziare progetti transfrontalieri insieme ai bilanci nazionali. Ha visto il suo sogno avverarsi ancor prima di assumere, nel 2019, il suo doppio incarico all’Industria e alla Difesa nella Commissione Ue. Questa, nel 2016, ha infatti raccomandato la creazione dell’Edf che è un copia-incolla delle proposte che i rappresentanti dell’industria hanno avanzato nei quasi 50 incontri avuti con gli eurofunzionari sin dal 2014. Lo rivela un’analisi di documenti confidenziali, pubblicata nel 2017 dal movimento pacifista belga “Vredesactie”.
Commissario delle lobby. I ritrovi in gran segreto sono ora diventati routine. L’anno scorso Breton ha ufficialmente istituito un comitato di esperti in cui cura, a porte chiuse, i suoi rapporti personali coi giganti del business della guerra che ambiscono a spartirsi gli 8 miliardi stanziati dall’Edf dal 2021 al 2027. Vi partecipano 61 enti: la stragrande maggioranza sono produttori, affiancati da istituti di ricerca, poche Ong, alcune federazioni professionali e l’Associazione europea delle industrie aerospaziali e della difesa (Asd), la principale piattaforma di lobbying del settore, che nel 2020 aveva appunto proposto di creare il gruppo.
L’ultima riunione si è avvicendata allo scoppio della guerra in Ucraina. Abbiamo chiesto le trascrizioni delle discussioni alla Commissione che promette di renderle note, ma non prima di luglio. In quelle del primo appuntamento, lo scorso settembre, si legge che i rappresentanti dell’industria hanno insistito sulla “necessità di tecnologie dirompenti per garantire competitività a lungo termine”. E in quelle del successivo incontro, tenutosi a novembre nel sotto-gruppo sulla difesa, si annuncia l’inclusione dell’accesso ai finanziamenti nel programma di lavoro del 2022. Nello stesso mese, Breton è intervenuto come ospite d’onore all’Assemblea annuale dell’Asd, che poi gli ha indirizzato una lettera di ringraziamento dicendosi “orgogliosa di poterla considerare come nostro Commissario”. Tra i convitati al salotto privato di Breton vi sono anche il colosso italiano Leonardo, le francesi Thales e Safran, la spagnola Indra ed Airbus, la società trans-europea con sede in Olanda. Questi gruppi figurano nella Top ten europea degli esportatori di armi e hanno speso complessivamente oltre 4 milioni di euro all’anno per pagare scagnozzi incaricati di influenzare la politica industriale Ue. Non solo: negli ultimi cinque anni hanno intascato quasi il 40% dei 590 milioni stanziati nelle fasi preparatorie dell’Edf mediante i programmi Padr (ricerca) ed Edidp (produzione). Come abbiamo scritto a marzo, la parte del leone (42 progetti su 62, pari al 68,4% dei fondi) la fanno le industrie di Italia, Francia, Spagna, Germania.
Export, non difesa comune. Questi programmi europei mirano a costituire un arsenale congiunto. I governi possono però consentire alle aziende consorziate di cedere gli equipaggiamenti a clienti fuori dai confini comunitari, ci riferiscono fonti ufficiali a Bruxelles. L’unica condizione è notificare il trasferimento a terzi delle tecnologie cofinanziate dalla Ue alla Commissione, che può eventualmente richiedere il rimborso qualora giudichi l’operazione rischiosa per la sicurezza dell’Unione. La vendita di armamenti prodotti sulla base di tali tecnologie non è invece soggetta ad alcuna limitazione. Ogni Stato decide per sé: i singoli governi devono solo segnalare agli altri le licenze all’export rilasciate alle proprie aziende.
La Commissione ha rifiutato di comunicarci se e quali Paesi hanno notificato trasferimenti di tecnologie e tiene riservato l’uso concreto che ogni azienda ha fatto dei fondi ricevuti dalla Ue, sostenendo che “le informazioni finanziarie sono legate a tecnologie in fase di sviluppo e utilizzo da parte degli Stati” e che la loro divulgazione “può causare un danno irreparabile alla difesa degli Stati membri e dell’Unione, andando oltre i meri interessi commerciali delle imprese”.