la Repubblica, 26 maggio 2022
Intervista a Javier Cercas
Il castello di Barbablù è il terzo episodio della saga di Melchor Marín, inaugurata daTerra Alta e proseguita con Indipendenza (tutti pubblicati da Guanda). Il temerario poliziotto dal burrascoso passato, lasciata la divisa, fa il bibliotecario, ma è costretto a rituffarsi nelle indagini quando sua figlia Cosette scompare. A Javier Cercas, che con la consueta, ironica disponibilità, ha acconsentito a rispondere via mail a qualche domanda, chiedo di spiegarci il suo punto di vista su quel rapporto padre-figlia che è centrale nella sua ultima opera.
«Nel rapporto fra genitori e figli c’è sempre una componente tragica, nel senso che c’è una controversia o una lite in cui i due litiganti hanno entrambi ragione. I genitori hanno ragione a voler proteggere i propri figli, e i figli hanno ragione a volersi emancipare dai genitori; è ciò che accade nel romanzo: Melchor ha ragione ad aver nascosto a Cosette la vera causa della morte di sua madre, perché credeva che lei non fosse preparata a conoscerla, e Cosette ha ragione ad arrabbiarsi con il padreperché le ha nascosto un fatto essenziale della sua biografia.
Entrambi fanno la cosa giusta, ma lo scontro è inevitabile. Perciò il rapporto tra genitori e figli è così complicato».
Cosette scompare dunque perché ha scoperto una verità devastante che Melchor le aveva tenuta nascosta. A un certo punto leggo: «La verità non fa bene alla vita». Lo credi davvero?
«In linea generale, può darsi che la verità – o alcune verità – non sia sempre buona per la vita. “Human kind cannot bear too much reality” scrisse T. S. Eliot: la specie umana non può sopportare troppa realtà.
Ma penso anche che prima o poi bisogna affrontarla, perché non si può vivere di spalle alla verità».
L’altro grande tema è quello del rapporto fra colpa, espiazione, perdono. Il libro preferito di Melchor è “I Miserabili”, tanto da chiamare sua figlia Cosette.
Melchor è l’unico al mondo che io conosca a stare dalla parte di Javert e non di Jean Valjean. Ecco un aspetto che mi ha colpito, Javier: una giustizia così implacabile non rischia di essere una giustizia ingovernabile, eccessiva?
I«In questi tre romanzi la domanda centrale è sempre la stessa: è legittima la vendetta quando la giustizia non ci rende giustizia? È legittimo, come a volte fa Melchor, farsi giustizia da soli? Nella realtà, la risposta è ovvia: certo che no; come dice un vecchio poliziotto nel romanzo, “chi non rispetta le forme della giustizia, non rispetta la giustizia”. D’accordo. Però nella finzione, nella letteratura, le cose sono molto diverse. Guarda, Giancarlo, per me la letteratura è prima di tutto un piacere, come il sesso; però è anche una forma di conoscenza, proprio come il sesso (perciò, quando qualcuno mi dice che non gli piace leggere, l’unica cosa che mi viene in mente è fargli le condoglianze). Ciò che fa la buona letteratura è mettere in questione le nostre convinzioni più radicate, farci uscire dai nostri gangheri, costringerci a empatizzare con persone, atteggiamenti o ideologie che non ci piacciono o che detestiamo nella nostra vita quotidiana; in definitiva, in cambio del piacere che ci offre, la letteratura ci mette a disagio, ci crea problemi.
Vorrei che il lettore simpatizzasse fraternamente con Melchor Marín, il quale, nonostante sia affascinante, è capace di compiere gesti brutali, inaccettabili nella vita quotidiana».
C’è una frase che ricorre: «Odiare qualcuno è come bere un bicchiere di veleno credendo che ucciderà quello che odi». Melchor odia ancora? Cosette odia?
Ricordo quel tuo libro magnifico, “Soldati di Salamina”: lì non si parlava la lingua dell’odio, semmai quella della comprensione, anche fra nemici che si erano combattuti con le armi. È cambiato qualcosa da allora? Sei cambiato tu? È cambiato il mondo o io ricordo male?
«Melchor è un personaggio pieno di rabbia, di dolore, di oscurità e di desideri di vendetta, di tutte le cose che ognuno di noi si porta dentro – chi non ha mai provato odio non è una persona, ma una macchina, o un bugiardo – e che Georges Bataille chiamava “la parte maledetta”, osemplicemente il Male. Ma è anche vero che Melchor è un personaggio pieno di luce e che, soprattutto in quest’ultima parte, la luce si impone all’oscurità».
Andiamo sul personale. Per me, come scrittore di polizieschi, è un grande piacere “accogliere” in famiglia un autore del tuo calibro.
Ma la curiosità è forte: quando e come e perché ti è venuta voglia di scrivere “noir” (naturalmente, a modo tuo!)?
«Borges diceva che tutti i romanzi sono romanzi polizieschi, e penso che avesse ragione. In ogni caso, tutti i miei romanzi lo sono sempre stati (tutti i miei e quasi tutti i romanzi che mi piacciono, dalChisciotte in avanti), almeno nella misura in cui in tutti c’è un enigma e qualcuno che tenta di decifrarlo.
Però la verità è che non mi sono mai riproposto di scrivere un romanzo poliziesco: semplicemente, quando avevo già scritto parecchie pagine del primo volume, mi sono reso conto che Melchor poteva essere soltanto un poliziotto (forse perché il tema di fondo del romanzo era la giustizia). In definitiva, l’unica cosa che mi sono riproposto scrivendo questi romanzi è quella che mi ripropongo sempre: scrivere il miglior romanzo possibile. Se qualcuno vuole leggerli come romanzi polizieschi, mi sta bene; e se non vuole farlo, mi sta bene uguale. Ovviamente, sono consapevole che c’è chi pensa che il genere poliziesco sia un genere minore; si tratta di un pregiudizio contro il quale è inutile combattere.
L’unica cosa che posso dire al riguardo è che chi lo pensa non sa cos’è la letteratura. Semplicemente.
Perché in letteratura non esistono generi maggiori o minori, ma solo modi maggiori o minori – migliori o peggiori – di usare i generi. In definitiva, ci sono soltanto due tipi di letteratura: la buona e la cattiva.
Tutto il resto sono chiacchiere. Del resto, come dice Melchor inIndipendenza : “i romanzi non servono a nulla, tranne che a salvare vite”».