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 2022  maggio 26 Giovedì calendario

Quelli senza amici

Il Covid ha accelerato e consolidato una tendenza già in atto Per contrastarla cominciano a spuntare società tipo “Rent a friend”, che offrono un po’ di compagnia a noleggio
Zero amici, zero relazioni, zero complicità, zero anima gemella. Nessuno con cui condividere un segreto, nessuno da amare e da cui essere riamati, nessuno a cui confessare la propria solitudine e il desiderio di avere appunto, almeno un amico. Solo un grande zero.
Negli Stati Uniti un millennial su cinque dice di non avere neanche un amico. E lo stesso vale per i coetanei europei. Nel 2021, un sondaggio online effettuato dalla società Gallup ha rilevato che, dopo la pandemia, il 13% delle americane e l’8 % degli americani tra i 30 e i 49 anni hanno perso i contatti con tutte le persone che conoscevano ma i dati sono simili ovunque.
E mentre Mark Zuckerberg continua a fissare un tetto massimo di 5.000 amici da raggiungere su Facebook, la realtà, sempre più distopica, sta andando nella direzione opposta. Primo perché questi record sono per pochi utenti (la media si aggira intorno ai 200 amici), secondo perché per la maggior parte delle persone, nessuno di questi è un vero amico. Si tratta di ex compagni di scuola, colleghi, conoscenti incrociati per caso su cui è difficile contare davvero.
Siamo diventati una società di numeri primi, di monadi isolate che non si incrociano mai veramente. Si sfiorano, si guardano da lontano ma senza mai fondersi l’uno nell’altro.
In Giappone, incubatore di tendenze e precursore di comportamenti a volte estremi, molte giovani donne decidono di celebrare il loro solo wedding, un matrimonio dove c’è tutto salvo lo sposo. Non hanno tempo di cercarlo e soprattutto non sanno se lo troveranno, così intanto si sposano con se stesse. Sempre a Tokyo, molte anziane con pensioni minime e figli troppo occupati commettono piccoli furti pur di finire in galera e avere qualcuno con cui chiacchierare e sentirsi parte di una comunità.
Si parla molto di inclusione, condivisione, di coworking e coliving, eppure i solitari sono diventati maggioranza.
Certo la prima giustificazione èche il Covid è stato un acceleratore di tutti i disagi: lockdown, lavoro da remoto, Dad hanno cancellato incontri, feste, occasioni per conoscersi, per ballare, per baciarsi e magari fare sesso per una notte con uno sconosciuto, ma dare tutta la colpa alla pandemia è ingiusto. La solitudine diffusa e pervasiva si era già insinuata molto prima tra di noi.
Sono anni che da più parti si denuncia la troppa dipendenza dai social network, le troppe ore passate sugli smartphone (controlliamo in nostro cellulare duecentoventi volte al giorno), il tempo infinito trascorso a giocare a qualunque cosa contro se stessi e si guardano con apprensione i gruppi diadolescenti che camminano concentrati ognuno sul suo schermo.
È dagli anni ’90 che gli hikikomori hanno chiuso la porta della loro cameretta per non riaprirla mai più. Sono ragazzi che vivono isolati, in compagnia soltanto del loro computer. Oggi in Italia sembra siano circa 30.000.
La distanza tra il nostro io virtuale e quello concreto è diventata siderale: da una parte si cerca di arrivare a 5.000 amici su Facebook, di avere l’agognato like, di essere seguiti da schiere di followers, dall’altra ci si accorge che questi numeri non rappresentano nulla e che avere un amico vero nella vita di tutti i giorni, è sempre più difficile.
Noreena Hertz, economista e direttrice del Centre for International Business and Management dell’Università di Cambridge, nel libro “Il secolo della solitudine” racconta di aver noleggiato per un pomeriggio “un’amica” per 40 dollari da una società chiamata Rent a Friend, di essersi sottoposta a un colloquio di lavoro dove la valutazione era in mano ad un algoritmo, di aver fatto la spesa in un Amazon go dove non c’era nessuno salvo le telecamere che controllano i movimenti dei clienti e di aver sperimentato un robot ideato per essere il suo animale da compagnia.
«È un segno dei tempi il fatto di poter ordinare un amico con la stessa facilità con cui ordino un cheeseburger, solo con qualche clic sul mio cellulare», dice la Hertz che ritiene che «in questi anni è emersa un’economia della solitudine, creata per sostenere — e in qualche caso sfruttare — chi si sente solo».
E se è vero che siamo destinati a essere atomi isolati in un mondo sempre più in mano agli algoritmi, frenare questa emorragia di scarsità di amicizia è diventata una priorità. Così, se fino a ieri psicologi e ricercatori, per evitare la sindrome della solitudine — più dannosa per la salute pare che fumare 15 sigarette al giorno — consigliavano di avere almeno cinque amici, ora il numero che porta alla salvezza è diventato uno. Un vero amico, una persona di cui fidarsi, a cui appoggiarsi nei momenti di difficoltà, qualcuno che ci faccia sentire vivi e importanti.
«Se l’obiettivo è quello di mitigare l’impatto dannoso che la solitudine può avere sulla salute, ciò che conta di più è avere almeno una persona importante nella propria vita, che sia un partner, un genitore, un amico o qualcun altro», ha dichiarato Jeffrey Hall, professore di studi sulla comunicazione presso l’Università del Kansas. «Passare da zero a uno è il p unto in cui si ottiene il massimo risultato », ha detto Hall che poi ci invita ovviamente ad aumentare e moltiplicare la nostra cerchia di relazioni.
Il problema rimane come fare? Speriamo che la soluzione non ci arrivi da un ennesimo algoritmo.