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 2022  maggio 25 Mercoledì calendario

Peretti, il maestro segreto dei collezionisti d’arte


È difficile parlarvi di uno che non avete conosciuto, né direttamente né indirettamente, perché non è stato un uomo pubblico, anzi era un uomo segreto, ma importante per l’Italia, per il sapere e per quello che ha insegnato, in un mondo in cui le istituzioni sprecano danaro per recuperare opere fasulle, i magistrati aprono inchieste su questioni inesistenti, mentre il Paesaggio italiano viene devastato, le città sfigurate, i musei ospitano improbabili artisti cosiddetti contemporanei, come se l’essere contemporanei fosse una categoria e non un dato cronologico.
Nando Peretti – di lui voglio parlare – era sensibile e infallibile; era prima di tutto un uomo intelligente, ed era l’ultimo conoscitore di una categoria che verrà estinguendosi tra breve, e di cui ho avuto l’onore di far parte in extremis. Peretti aveva conosciuto e visto all’opera e ascoltato i principali storici dell’arte che avevano un rapporto fisico con le opere, persino olfattivo: Longhi, Arcangeli, Briganti, Zeri, Gregori, Volpe, Gonzalez-Palacios, Testori, Spinosa. Insomma, c’erano ed erano bravi. E intorno a loro c’erano collezionisti, antiquari, amatori, più o meno studiosi. Io li ho conosciuti tutti. Ne ricordo l’estro, il talento, le capacità: Fabrizio Apolloni, Gilberto Algranti, Geo Poletti, Ettore Viancini, Egidio Martini. Indimenticabili, in Emilia-Romagna, Adriano Cera, Maurizio Balena, Pier Francesco Savelli. A Roma giocavano Cesare Lampronti e Mario Bigetti. In tutti loro dominava un istinto che talvolta prevaleva sulla ragione. Nando aveva intuizioni lampanti, basate su una conoscenza fatta di studio e di esperienza. Era sensibile e infallibile; e, nel rapporto con gli altri, mai distaccato, mai superiore. Era superbo e umile. Superbo nel capire, umile nell’insegnare. E così, senza essere maestro o professore, aveva intorno a sé amici che si consideravano non soci ma allievi. Ne avvertivano la superiorità. Lo ammiravano e lo rispettavano. Ne conoscevano l’intelligenza, l’abilità e la furbizia che, unite insieme, producevano un bene comune, ben diverso dalla formula che si usa per ipocrisia politica. Bene comune ha a che fare con i beni: e cosa è bene comune più di un’opera d’arte, sopratutto se nuova, scoperta, offerta agli studi? Nessun paragone con il concetto alto e distante di belle arti, ma non è stata una cattiva traduzione chiamarli beni artistici. Di quei beni Nando è stato ricercatore, studioso, cacciatore.
Io lo conobbi e lo frequentai, tra Londra e l’Italia, tra la fine degli anni 70 e i primi anni 80, con un altro talento che ne apprezzava il merito e ne traeva benefici: Mario Lanfranchi, anch’egli scomparso da poco, grande collezionista e uomo educato a vivere come in un teatro, a metà strada tra D’Annunzio e il mondo del cinema. Nell’ambiente dell’antiquariato di quegli anni ancora mitici, dopo Elia Volpi, Bardini, Duveen, vi furono alcune leggende. La prima, di generazione ancora alta, fu Pietro Accorsi. Non era un uomo di cultura ma aveva un istinto della qualità. Lo conobbi vecchissimo, patinato. In America conobbi altri mostri sacri come Mont, Feigen, Luigi Grassi. Molto in alto stava, ma distante, e ne ho capito la grandezza acquisendo per lo Stato alcune opere delle sue collezioni prima che fossero messe all’asta, Carlo de Carlo. Più accostante, e pur sofisticato, Giovanni Pratesi. Ho conosciuto bene un altro largamente stimato, Mario Costantini, che aveva bottega in Palazzo Massimo alle Colonne. E ho molto frequentato, ammirandone le intuizioni e il talento, Gilberto Algranti. Più tardi – tra i quadrari – si fecero spazio Giorgio Baratti, Marco Voena, Fabrizio Moretti. Ma nessuno fu come Nando Peretti.
Leggendario per l’abilità, la velocità e la quantità di opere acquistate, aveva galleria a Londra e casa a Roma (la città dove era nato nel 1938, e dove è morto domenica), ma i dipinti straordinari che aveva raccolto, e conservato piuttosto che venduti, erano in depositi (raramente) frequentati da amici collezionisti e studiosi ammirati. E che prendevano atto della sua insaziabile curiosità e varietà di selezioni, con scoperte in larga misura individuate da lui in aste, in case, in castelli inglesi, dov’erano o ignorate o sottostimate. Negli ultimi anni aveva portato alcuni dei suoi più interessanti ritrovamenti ad Ariccia, dove resteranno, sotto l’amorosa vigilanza di Francesco Petrucci, conservatore e direttore di Palazzo Chigi che, agli intatti arredi del principe Agostino, il migliore acquisto dello Stato negli ultimi cinquant’anni, aggiunse le collezioni Lemme, Fagiolo dell’Arco, Oreste Ferrari.
I depositi di Nando erano, e sono (maledizione parlarne al passato), l’orgoglio di Palazzo Chigi oggi, e il maggior vanto di Petrucci. Un resoconto dell’avventura di visitare i depositi di Nando in Inghilterra è negli scritti di Massimo Pulini, raccolti ne La mano nascosta. Io, nel corso degli anni, dopo Londra, a casa alla galleria Walpole, sono andato a trovarlo più volte in via Margutta, in centro ma isolatissimo, vedendo approdare tra i suoi computer e le sue carte capolavori sconosciuti, fra i quali ammiccava un mai pubblicato Caravaggio. Ricordo un San Gerolamo, di commovente verità, di Simone Cantarini, sofisticate invenzioni di Agostino Cavallucci, una cui sospirosa Maddalena generosamente mi donò. E poi i grandi: Tintoretto, Ribera, Battistello, Vouet, Saraceni, e vari caravaggeschi, Guido Reni, Rubens, Baciccio, Lanfranco, Cavallino, Luca Giordano, i ferraresi Garofalo, Scarsellino, Guercino, Canaletto, Guardi, Tiepolo, Giaquinto, Batoni, Vanvitelli, perfino Velasquez, un ritratto di cui ho condiviso l’attribuzione. Alcune passioni diventarono ossessioni: inseguì e acquistò più di 100 Ippolito Caffi, tanto da farne una mostra – e una monografia – solo con i suoi quadri. Una volta a Londra batté contro di me a un’asta un ritratto di Tiziano. Non glielo lasciai.
A Palazzo Chigi di Ariccia restano, in donazione o in deposito, Cavalier d’Arpino, Caroselli, Voet, Mattia Preti, De Matteis, tutti miracolosamente apparsi.
Era un uomo pieno di vita, di energia. A un certo punto fu colpito da un cancro cattivo che lo limitò nei movimenti e nella parola. Non era facile talvolta capirlo. Ma resistette e andò avanti mantenendo l’intelligenza lucida, e continuando a stanare capolavori. Quando non se ne vedeva o conosceva l’acquirente si poteva dire: «È stato Nando». Il dipinto era suo e arricchiva la sua pinacoteca virtuale.
Nando vedeva quello che altri non vedevano. E insegnava a vedere. Senza parere. Così è grande il rimpianto di quanti lo hanno frequentato, lo hanno accompagnato, tentato di carpirne i segreti, si sono formati, hanno vissuto, condividendo il suo generoso entusiasmo, come Francesco Petrucci, come Giuseppe D’Angelo. In questi ultimi anni ho avuto modo di vedere assiduamente quelli che gli sono stati più vicini, di sentire la loro emozione e riconoscenza. E anche il loro durevole affetto. Li si trova tutti in una lettera del giovane Tommaso Feruda al figlio di Nando, Matteo: «Carissimo Matteo, a poco serve – e più di tutti a me stesso – dirti qui che avevo deciso infine che sarei venuto a Roma a trovarvi il 30 maggio, in occasione dell’asta di Finarte. Ho infatti visto una settimana fa Giuseppe a Ferrara, e mi ha detto che la situazione era almeno un poco migliorata, per cui ora più che mai, davvero sinceramente, non mi aspettavo che mancasse così, improvvisamente: ma del resto non saprete, né il giorno, né l’ora dicono in verità le sacre scritture. È un dolore che terrò in cuor mio purtroppo, quello di non averci potuto parlare un’ultima volta a Roma. Vorrei però che sapessi che tuo padre è stato per me non solo un grande maestro nel mestiere, ma anche in tante altre cose della vita. Piango scrivendoti che, in qualche modo, in certi momenti è stato anche per me... quasi un padre, che, come sai, non ho di fatto avuto. Gli portavo molto affetto, e se – nel bene e nel male – la mia vita è oggi com’è, certamente è stato anche per avere conosciuto lui: uomo intelligentissimo e mercante leggendario. Generoso e avaro, simpaticissimo e odioso, sensibilissimo, seppur a tratti quasi cinico, lo riterrò sempre un uomo straordinario nel più alto senso del termine, e così ho sempre conseguentemente detto a tutti di lui. Mi ha cambiato – rendendola almeno in parte quella che sognavo potesse essere – la vita, e per questo gli sarò spiritualmente grato fino al mio ultimo giorno su questa terra, ricordando le nostre crasse risate insieme e tanti altri bei momenti passati insieme! Sii fiero di esser figlio di un tale padre... Ti abbraccio ora come un fratello, Tommaso».
Non mi pare di dover aggiungere altro e, benché io fossi più distante, in ogni caso apprezzavo, di Nando, il metodo, la generosità, il suggerimento e il riconoscimento, nel mettere a fuoco l’autore di un dipinto, in una caccia senza fine che ora continueremo senza di lui. Perché la sua felicità, la sua ansia e la sua vita proseguano in noi.