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 2022  maggio 25 Mercoledì calendario

Piccola storia sulla prepotenza dei poliziotti

Mi scuso in anticipo per l’uso privatistico di colonna pubblica e per i due minuti di lettura che nessuno vi restituirà, ma a volte eventi infinitesimali possono innescare una piccola riflessione. Il mio, di evento, è avvenuto ieri mattina a casa mia, Bologna. Già isola felice, già capitale morale del rapporto tra cittadini e istituzioni, ancora oggi un posto ottimamente amministrato in cui vivere è mediamente più gratificante che in altre parti d’Italia. E riguarda una controparte con cui non ho mai avuto guai, tolta forse qualche discesa al volo dal sedile posteriore di un motorino, alla vista di una divisa color carta da zucchero: quella dei vigili urbani. O, come cantavano i Meganoidi, la Municipale.
Ma era quarant’anni fa.
Il fatto: mi imbatto in un blocco del traffico dovuto, lo apprenderò solo dopo, allo sgombero del capannone ex Cesare Ragazzi, quello dei parrucchini. Gli striscioni mi fanno invece pensare al solito tributo da versare a qualche pazzerello novax, e così mi viene in testa un’idea meravigliosa (cit.): chiedere a un agente che accade.
«Buongiorno, per curiosità, che manifestazione è?». Lui: «C’è una manifestazione». «Sì, ma per cosa?». Lui (improvvisamente aggressivo): «Te ne devi andare! Blocchi il traffico!».
Siccome il traffico manco c’è – essendo appunto bloccato in direzione dell’evento – accosto dove do ancora meno fastidio e torno indietro a piedi: «Scusi, lei non può trattare così un cittadino. Le ho solo chiesto un’informazione». Torna a darmi del lei: «Bloccava il traffico». «Guardi, non è vero. Tra l’altro sono un giornalista». «Non si è qualificato». «Ho capito, ma dovreste essere gentili con chiunque, ho solo fatto una domanda».
Arriva un collega più grosso che prima rivendica il diritto a usare il tono che gli pare e poi spara: «Documenti». Spiego che sto solo perorando la causa dell’educazione. Mi scorta brusco all’auto per prendere il portafoglio, chiedo perché mi sta identificando: «Perché facciamo un rapporto su di lei e su quello che è successo».
A questo punto mi sento intimidito, aggredito. Dico che è un abuso, una roba da fascisti. «Adesso chiamo il capo». Matrioska: il capo è ancora più grande. Spero che almeno lui mi ascolti. Ma tutti ripetono ad alta voce: «Lei bloccava il traffico». Ribadisco che non è vero. Il secondo intervenuto: «È la sua parola contro la nostra». «Ma perché mi avete chiesto i documenti?». «A sua tutela, se vuole denunciarci». «Ma davvero? Io ho solo chiesto educazione e mi state trattando come un delinquente?». «Bloccava il traffico». Il capo: «Comunque non erano tenuti a risponderle». Il secondo: «Intanto facciamo il verbale e lo portiamo in centrale». Dico: «Allora deve riportare anche la mia versione». Risposta: «No».
Ora, mi rendo conto che rispetto agli abusi veri, siamo al nulla. E che, come mi ha detto uno dei tre agenti, lavoravano dalle 7 (spoiler: io dalle 6), e anche che era in corso un’azione di polizia, anche se a cento metri e senza scontri. Apprezzo chi fa un lavoro vero. Ma, ecco, io ho avuto paura. Molta. Ho mantenuto la calma ma, se non mi fosse riuscito, la mia originaria richiesta di gentilezza avrebbe potuto portarmi in centrale insieme al verbale. O in Questura. Poi si vede.
Al che, con l’abituale rispetto per la divisa e per chi la porta, mi permetto di avanzare un piccolo dubbio, una preghiera, una certezza. Il dubbio è che ormai, quando l’ordine pubblico riguarda un certo tipo di interlocutori (gli sgomberati, non io) e non altri (gli ultras di estrema destra, i tizi in orbace), le regole d’ingaggio emotive siano molto diverse. E non è una bella aria. La preghiera, ai tre agenti: siate gentili con chi è gentile e professionali con chi non lo è, non fate branco. Perché mi avete spaventato. E io sono un tizio che alle istituzioni vuole crederci.
La certezza? Beh: che non bloccavo il traffico.