la Repubblica, 25 maggio 2022
Intervista a Pierfrancesco Favino
«Solo un caffè, se mangio mi addormento». Pierfrancesco Favino si accende la sigaretta elettronica «la fumo da quattro anni». È stanco, «sono arrivato all’una, sono stato a Milano fino a tardi sul set di L’ultima notte d’amore». Al Festival di Cannes una nuova prova da camaleonte in Nostalgia di Mario Martone, dal romanzo postumo di Ermanno Rea, in concorso e in sala da oggi (Picomedia, Mad Entertainment, Medusa, Rosebud).
Favino è Felice Lasco, imprenditore che torna a Napoli dopo quarant’anni per accudire la madre (Aurora Quattrocchi) con amorosa quanto tardiva dolcezza. Ha programmato un viaggio breve, ma si perde ogni giorno di più nel labirinto dei ricordi, del rione Sanità, della nostalgia, confrontandosi con don Raga (Francesco Di Leva), prete ispirato alla vera figura del visionario Don Antonio Loffredo e aspettando l’incontro con il malavitoso Malommo (Tommaso Ragno), l’ex amico a causa del quale a quindici anni è partito per vivere tra Medio Oriente e Africa.
Per Favino tornare a Cannes «è la continuazione della festa che è stata per me questo film, un viaggio con il biglietto di sola andata».
Nel 2019 era qui con “Il traditore”.
«Era la mia prima volta. Sono timido, mi ha emozionato il successo inaspettato, celebrare Marco Bellocchio. Spero che non succeda spesso, perché resti così emozionante».
Che scoperta è stata “Nostalgia”?
«Un modo di lavorare nuovo. In questi anni ho costruito, però: Che c’è dopo “sei bravo”? Ho sempre visto il mio percorso come quello di un pittore, un musicista, c’è una crescita continua. Vengo da ruoli di uomini che impongono il loro carisma, la morbidezza di questo personaggio ha fatto entrare sfumature di colore nuove. È un film viscerale. Ognuno di noi ha dentro sé un sud di un mondo, un magnete interno, un posto che rappresenta il suo sé più intimo, forse quello dei suoi avi. La Sanità rappresenta qualsiasi luogo del mondo, Napoli come il Cairo.
Tornare è un gesto che diventa più importante dell’approdo».
Il suo rapporto con la nostalgia?
«Non l’associo al rimorso, a qualcosa di perso. Nostalgia significa memoria di qualcosa che alberga ancora dentro di te. Mi capita di avere nostalgia di cose che non ho vissuto, avrei voluto fare il cameriere a Roma negli anni 60 da Otello alla Concordia per veder arrivare il cinema italiano, entrare nella grande tela di un’epoca fiorente come la Parigi di fine 900».
Felice torna al Rione e riscopre una lingua che non parla quasi più.
«Ho studiato l’arabo e il modo di parlare di uno straniero che torna in patria e parla napoletano».
Il rapporto con Napoli?
«Facile innamorarsene da turista. Ho vissuto benissimo questo periodo, ma ero sempre Pierfrancesco Favino che stava alla Sanità. Ma il mio rispetto va a Di Leva che non solo vive lì, ma sceglie di viverci. Mi dice “i miei sono sepolti qui, qui voglio che i miei figli crescano. Se ce ne andiamo via noi non cambierà mai”. Se lo dico io è retorica, se lo fanno lui o i ragazzi di padre Loffredo che Mario ha voluto nel film, c’è ben altra forza».
L’amicizia e il confine tra bene e male, Malommo e Felice, che dice: “tra i due sono io quello fortunato”.
«Il confine sono le strade, le opportunità. Felice, si sentetraditore, non tradito, è ancora fiducioso nel fatto che Malommo abbia del buono dentro di sé. So che le opportunità, i luoghi, gli incontri, consentono le scelte. In un luogo in cui per sopravvivere sei costretto a tirar fuori le unghie, cosa vuol dire la bontà? Ecco, questo è quello di cui mi occupo io».
L’immersione nel rione Sanità?
«All’inizio non ero neanche Favino ma Buscetta. Nel buio una notte un’ombra dietro a me mi ha detto:“Buscetta ma non hai paura di stare qua?”. Dopo quattro settimane lì chi passava in motorino mi urlava “Ué Felì!”. Sono passato da Buscetta a Felice, Favino non pervenuto. E poi gli incontri: la signora alla quale io, non avendo un camper, bussavo per fare la pipì. Mi apriva la porta, mi faceva il caffè e non la richiudeva».
“Nostalgia” esce oggi in 450 sale.
«Per me il cinema è solo in sala. Alla tv ordino di darmi quel che mi piace, in sala mi abbandono pensando che la visione di qualcun altro sia la mia».