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 2022  maggio 25 Mercoledì calendario

Cronache della marcia su Roma (puntata 5)

Le guardie regie erano schierate fin dal mattino davanti alla Casa del Popolo in via Manfredo Fanti a Milano, nella divisa grigioverde con le stellette a cinque punte, l’elmetto dello stesso colore sormontato dalfregio conloscudodicasaSavoiael’aquiladallealispiegate: colbeccogiàrivoltoadestra.Dall’altraparte dellastradaicarabinieri,conlabaionettainnestata sui fucili.
A Megliadino San Vitale, nel Padovano, un gruppo fascista assalta un’osteria dove sono riuniti alcuni socialisti che riparano al primo piano e sparano dalle finestre uccidendo due squadristi e ferendo gravemente un terzo. Il Primo Maggio finisce con dodici morti, 58 feriti, un cascinale incendiato a Rieti, due circoli bruciati a Rotta, in provincia di Pisa. Alla vigilia della festa, il manifesto dell’Internazionale comunista denunciava «l’attività sanguinosa dei fascisti, preludio della guerra civile», ma garantiva i lavoratori per il futuro: «Formate una sola classe, di qualunque tipo siano le vostre divergenze politiche, se fate blocco nessuna forza vi potrà resistere».
È come se il Paese, stremato ed elettrizzato nello stesso tempo dalla furia che lo squassa percuotendolo, cercasse un nuovo interprete del suo destino, disposto a consegnarsi in una vertigine della decadenza dove qualsiasi azzardo è meglio della continua, progressiva perdita di coscienza e di valore: e al fondo scoprisse il fascino del male, cedendo all’abbandono. Prima, c’è l’attrazione per il sovvertimento, il ribaltamento delle gerarchie, il richiamo dell’avventura, la confusione tra la forza fisica e l’energia politica in un’alchimia sconosciuta, che genera una rappresentazione degli avvenimenti dilatata e febbricitante.
È per questa via che al mito identitario del Primo Maggio il Duce, aiutato dagli studi di Margherita Sarfatti, sostituisce il mito primigenio di Roma fondatrice della storia italiana, invincibile perché imperiale e sovrana, eterna attraverso i millenni. Decretando il “funerale” della Festa dei lavoratori, il fascismo trasforma la celebrazione del Natale di Roma, il 21 aprile, nella nuova festa del lavoro, precipitandola di colpo nella “Festa del fascismo”. La retorica aulica di Mussolini, pagana ma continuamente alla ricerca delle fondamenta metaforiche del sacro, perennemente tentata dalla trasposizione epica del contemporaneo, cerca nell’incontro con Roma l’alfabeto spirituale che le manca e la cornice storica che sta inseguendo. La dimensione eroica che nasconde le incertezze del Duce trova nella romanità la sua ragione, il richiamo perenne, la sollecitazione continua, e viene comunicata alla Nazione come un disvelamento popolare, dopo secoli di occultamento nella polvere della storia. Immediatamente il fascismo si attribuisce il ruolo di interprete e continuatore di quel destino riconsacrato, «come Enea ritrovò l’antica madre». «Roma e Italia sono due termini inscindibili — dice Mussolini — . Nelle epoche grigie o tristi della nostra storia Roma è il faro dei naviganti, la meta suprema.Celebrare il Natale di Roma significa celebrare il nostro tipo di civiltà, esaltare la nostra storia e la nostra razza. Roma è il nostro punto di partenza e di riferimento, è il nostro simbolo, il nostro Mito. Moltodi quello spirito immortale risorge nel fascismo: romano è il Littorio, romana è la nostra organizzazione di combattimento, romano è il nostro orgoglio e il nostro coraggio. È destino che Roma torni a essere la città direttrice della civiltà in tutto l’Occidente d’Europa».
Da quel momento il linguaggio mussoliniano si lancia a celebrare nell’idea leggendaria di Roma la sua sorgente oltre che il giacimento lessicale e immaginifico, in un recupero ossessivo di termini e simboli, un ritorno costante al quadrumviro, al labaro, al console, al triario, al manipolo, al decurione, alle centurie, alle coorti e alle legioni. La postura stessa del Duce nei suoi discorsi («Sapeva esattamente quando doveva fermarsi — spiega la moglie Rachele — , gettare indietro la testa, sporgere il mento, mettere le mani sui fianchi o incrociare le braccia, per un dono di natura»), l’uso delle pause, la semplicitàsintattica, la ripetizione catechistica, la forza polemica, la creazione figurativa, tutta questa costruzione retorica che avviluppa il fascismo trova nel sogno ideale di Roma il suo modello e il suo compimento, la sua legittimazione, addirittura la missione. Mentre un’altra Roma, mondana, terrena e politica spunta sull’orizzonte di conquista che si affaccia in una lontananza di cinque mesi dalla Marcia: appunto, “la meta suprema”.
La nervatura del linguaggio si adegua allo spirito guerriero di Roma. «Sentiamo fervere il più vero sangue della stirpe romulea per tutte le arterie della nazione — grida il
— . O bastardi delle Internazionali, siete voi sordi per non avvertire il risveglio titanico di questo spirito di razza e questo bruciante amor di patria nell’umile cuore del popolo? Guai ai popoli eunuchi. Tutto è sorpassato e superato nella fiumana di romanità che dilaga per ogni zolla d’Italia: e socialismo e capitalismo, e borghesia e proletariato, governo e parlamento. Chi è forte ha pace».
Nell’anomalia del fascismo, diverso da tutti gli altri partiti, si forma la convinzione che non basta dirigere lo Stato, bisogna possederlo. Per arrivare a questo risultato, il Fascio può incominciare a sostituire lo Stato là dove rivela particolare debolezza e inconcludenza, trasmettendo ai cittadini l’impressione di un’assenza istituzionale, un vuoto di governo e di potestà: e la promessa di una supplenza fascista. Le camicie nere si presentano come la forza che ha bloccato lo sbarco del bolscevismo in Italia. Poi lo squadrismo non è rientrato nei ranghi, si è trasformato nella mano armata degli agrari, la sua violenza si è messa al servizio della borghesia reazionaria e infine è diventata espressione autonoma della rivolta, non ha più bisogno di motivazione e mandanti esterni, si giustifica mentre si compie e per il semplice fatto di compiersi. Questa tecnica del colpo di mano insieme con la logica della sostituzione porta i fascisti a organizzare platealmente il boicottaggio dello sciopero dei ferrovieri proclamato per il Primo Maggio. Dalle 6 del mattino squadre di macchinisti, conduttori, fuochisti, manovratori e frenatori col distintivo fascista all’occhiello si presentano alle stazioni e salgono sui treni fermati dallo sciopero, facendoli partire imbandierati tra gli applausi. Su quei treni fascisti viaggia il paradosso dell’“ordine” ristabilito da una forza dichiaratamente eversiva, calpestando il diritto di sciopero, nella prova generale della grande sostituzione.
Il sistema continua ad accumulare tensione, come se si preparasse ad esplodere. Tutto è esasperato, conflittuale, eccitato. In coda alla battaglia del Primo Maggio sessanta imprenditori nella zona di Torre Annunziata decidono la serrata di tutti gli stabilimenti per ventiquattr’ore, in reazione immediata allo sciopero operaio. Ma è il Paese intero che sembra infiammabile, senza un ancoraggio di stabilità, salvo la sorpresa del censimento che al 1° gennaio del 1922 conta 37.270.493 abitanti nel Regno, con una crescita di 2 milioni e mezzo (7,5 per cento) rispetto alla rilevazione del 1911, nonostante il decennio abbia dovuto affrontare terremoti, un’epidemia di influenza con 400 mila vittime e soprattutto una guerra con mezzo milione di morti militari, oltre ai 350 mila orfani e 300 mila mutilati e invalidi. Ma i salari non riescono a crescere come il costo della vita, anzi la loro potenza d’acquisto è inferiore a quella d’anteguerra, con il bilancio giornaliero di una famiglia operaia tipo che registra 21,20 lire di guadagno e 26,37 di uscite. Al mercato bisogna spendere una lira per un chilo di carote, 45 centesimi per un cavolo piccolo, le patate arrivano a 80 centesimi al chilo, l’aglio a 1 lira e 30, le castagne secche e 2,40, mentre nei negozi la carne di manzo fresco di prima scelta costa 6 lire al chilo, l’olio d’oliva 11 lire, il burro 9,50, il lardo nostrano 90 centesimi, il gorgonzola 12 lire, un fiasco di vino per famiglia 4,20 e la vera occasione questa settimana è la scatola da 200 grammi di sardine finissime solo a 1,80. Sindaci e prefetti intervengono col calmiere, frenando a Torino il prezzo della pasta secca di grano duro a 2 lire e 80, a Milano il costo del latte a 1,10, mentre il governo ribassa in tutto il Regno il prezzo del pane di 5 centesimi al chilo. Ma manca il sale, e si è costretti a comprare quello di lusso, più fluido ma anche più caro, e a Torino le guardie municipali consegnano ai disoccupati i buoni per la minestra del sindaco, distribuita gratuitamente in 16 punti della città, ogni sera.
I focolai di protesta surriscaldano il 1922. Appena il prefetto di Venezia ordina di ridurre di 10 centesimi i prezzi di vendita del pane, perché i consorzi pagano meno il grano, i fornai di Mestre chiudono tutti gli impianti e propongono di rivalersi sui salari degli operai, e la stessa ribellione va in scena in Piemonte, dove il ribasso è di 5 centesimi. All’assemblea degli azionisti Fiat il presidente Giovanni Agnelli comunica che «l’andamento delle officine nel corso dell’anno è stato tranquillo e si può considerare ormai cessato il periodo di disordine», ma annuncia che «la quota-spesa del personale grava in modo eccessivo sul costo del prodotto, mentre altri Paesi hanno oggi la mano d’opera molto più economica della nostra». In risposta, la Cgdl rilancia la difesa delle otto ore (otto di lavoro, otto di riposo, otto di tempo libero o studio), che sono messe in discussione nell’edilizia. «Ricordano gli operai — si domanda l’ Ordine
— quante vittime, quanto sangue, quanti martiri per la conquista di queste otto ore? Ebbene, oggi è la sortedegli edili, ma domani sarà quella dei metallurgici, dopodomani… chi lo sa»? Dovunque il lavoro entra in sofferenza, per tutti i mestieri. Scioperano da 36 giorni i cavatori ad Arona, da tre mesi i lanieri di Susa, da settimane i cementisti di Berceto, da un mese i ceramisti di Pisa, Riffredi, Sesto Fiorentino, Laveno, Mondovì, si riunisce a Monza l’Internazionale dei cappellai, entrano in agitazione i tintori, le ombrellaie, i lavoranti barbieri, i carboniferi, i pianofortisti, sette equipaggi di piroscafi in partenza da Genova, i maestri delle scuole serali, gli chauffeur, i metalmeccanici, gli artisti drammatici. A Mammola, in Calabria, scioperano anche i preti, che si rifiutano di assistere alle funzioni lamentandosi perché il Canonico non riconosce i loro minimi diritti finanziari.
Lo squadrismo avverte nell’incandescenza del momento l’occasione per testare insieme la sua capacità di sfondamento e il livello di resistenza dello Stato. Tutto è azione, nel ’22, ma le camicie nere cominciano a sentire la sterilità dell’atto dimostrativo che si consuma nel gesto. Le bande fanno paura, non fanno politica. Mussolini stesso avverte il limite e il suo pericolo, sembra incarnare questa necessità di uscire dalla dimensione puramente fisica nel triangolo presenza, prestanza e violenza. E infatti sabato 13 maggio si mette in guardia per l’ultimo duello, sul prato del Velodromo Sempione. Il guanto di sfida viene da Mario Missiroli, direttore del
che il Duce in un articolo aveva definito “gesuita e vigliacco”, dopo essere stato accusato di essere al servizio degli agrari. Sette assalti, la spada di Mussolini che si spezza in punta, due ferite all’avambraccio destro di Missiroli (una di cinque centimetri) che fanno fermare la contesa, il rifiuto dei due avversari di riconciliarsi. L’avventura dei duelli per il Capo del fascismo finisce qui, come se si fosse conclusa un’epoca. E infatti gli squadristi cercano uno sbocco, non possono continuare all’infinito a fare spedizioni punitive, sentono la loro lontananza da tutta la società politica, confermata dal Duce che diffida di tutti, nazionalisti compresi: «Non vorrei che essi fossero i pescecani del fascismo, che ci sfruttassero e si arricchissero alle nostre spalle. Le simpatie del vasto pubblico si sono attenuate e sono in ogni caso mutevoli». Poi aggiunge: «Riassumendo, noi non abbiamo amici».
Poiché lo squadrismo non può risalire la sua stessa esaltazione, tornando alla normalità, i ras locali del partito cercano di indirizzarlo verso un obiettivo politico. Comincia Roberto Farinacci, avvertendo a inizio maggio il prefetto di Cremona che potrà tollerare manifestazioni socialcomuniste solo se non sventoleranno bandiere rosse e se lui stesso interverrà in contraddittorio. Poi si presenta nell’aula del Consiglio provinciale, si autonomina sul campo “quarantunesimo consigliere” e pretende di parlare: «Voi non potete decidere nulla perché non rappresentate più nessuno, in quanto i vostri elettori sono passati in massa al fascismo. Io porto la voce della parte sana della popolazione e interverrò atutte le sedute. Cremona è nostra e guai a chi la tocca. Noi disinfetteremo totalmente l’aria della città». Ma è a Ferrara che Italo Balbo chiede al Duce l’autorizzazione a un vero e proprio colpo di mano: ordinare all’improvviso e in segreto l’occupazione di Ferrara da parte dei 60 mila disoccupati della campagna di tutta la provincia, e non togliere l’assedio finché il governo non decida misure immediate di sostegno, con un piano di lavori pubblici. Auto, biciclette, barche: una circolare riservata in busta chiusa da aprire all’ora x ordina ai segretari dei Fasci locali di usare tutti i mezzi per convogliare lavoratori e disoccupati in città «per una manifestazione di forza senza precedenti», che suoni come ultimatum a Roma. Ogni uomo dovrà portare con sé un pastrano o un mantello e una coperta perché si dormirà all’aperto in strada, pane e viveri a secco, in quanto le osterie resteranno chiuse. La città è invasa, si bloccano i tram, si ritira la compagnia delle guardie regie che non ha opposto resistenza, si aprono gli idranti dell’acquedotto per il rancio, il forno comunale cuoce ventimila chili di pane. Il governo capitola e trasmette l’impegno per i lavori pubblici straordinari che chiedeva la piazza: 30 milioni. Scatta l’ordine di smobilitazione e il Duce esulta sul
«Viva Ferrara fascista». «Le giornate di Ferrara — spiega — sono il sigillo di una vittoria conquistata con duro sforzo, assidua tenacia, inesauribile fede, nella profondità del capovolgimento spirituale di quelle popolazioni. Ciò che è avvenuto nel Ferrarese non appartiene al regno degli effimeri: è duraturo». Balbo ripete al Duce che «questa grande manovra è la prima del genere che si tenti in Italia». E aggiunge: «Ora abbiamo l’esatta sensazione dello stato d’animo delle nostre masse, e la misura della loro disciplina».
Dunque una prova generale. Ma di che cosa? Anche il Duce fatica a cogliere la deriva della crisi, a decidere se farla esplodere oppure assecondarla. In sostanza, Mussolini è pronto a fare la rivoluzione? Dino Grandi, l’ex sfidante del Duce sul patto di pacificazione, spiega che non bisogna sbagliare la lettura dei tempi: «Siamo freddamente convinti che non si può forzare così, ad un tratto e attraverso l’audacia di un pugno di congiurati, il ritmo fatale di un lungo processo storico. La rivoluzione non può mai essere un’esplosione improvvisa di violenza sovvertitrice, bensì un processo lento, quotidiano, intimo e assiduo. Il fascismo oggi deve diventare un organismo politico potente e disciplinato che agisca contro lo Stato e lo trasformi». È la finedella lunga soggezione all’epica di Fiume, da sempre incombente sulle camicie nere come un modello ribelle d’obbligo. Grandi lo accompagna nella soffitta dei “miti altissimi”, dei “simboli purpurei”: ma basta così. E Mussolini approfitta per far votare al partito un ordine del giorno che confina D’Annunzio «solo nelle concrete e luminose manifestazioni spirituali». Ridotto a un santino, il Vate non ingombra più la strada del Duce, libero dal paragone e dal vincolo del culto eroico dell’insurrezione, fino al punto da accarezzare l’ipotesi legalitaria: «Non si può escludere una partecipazione fascista al potere dello Stato. Se domani sarà necessario ai fini supremi della Nazione, i fascisti non esiteranno a dare i loro uomini al governo dello Stato».
Quei sussulti pre-rivoluzionari che attraversano la pianura padana non sono quindi il frutto di una strategia, come pensa Togliatti, ma l’inerzia di un movimento ancora incerto sulla strada da scegliere, e intanto spinto, sedotto, dall’energia violenta dello squadrismo che mette in scena se stesso per tutto il mese di maggio. Tre giorni di occupazione a Rovigo; adunata di massa domenica 14 a Carrara con squadre di ciclisti, motociclisti e cavalleggeri; Crema invasa da bande nere che assediano l’onorevole Ferdinando Cazzamalli, medico socialista, lo inseguono, lo braccano costringendolo a partire; a Padova cerimonia funebre alla basilica del Santo «per salutare alla voce tutti i caduti sotto i colpi della barbarie rossa»; a Firenze sfilata di tre ore di 50 mila fascisti coi gagliardetti, preceduti dalla banda musicale. Inutilmente il Presidente del Consiglio Facta spedisce una circolare a tutti i prefetti del Regno invitandoli a vietare cortei e comizi pubblici, «per contribuire efficacemente alla pacificazione degli animi». La macchina governativa non lo ascolta, e Mussolini ha appena applaudito le adunate e le occupazioni: «Ormai la forza di propulsione del fascismo, i suoi motivi di vita sono così potenti che lo fanno rassomigliare ai fenomeni logici e inesorabili della natura, come lo scatenarsi di un uragano, il precipitare di una valanga o lo straripare di una fiumana ». Gramsci, sull’Ordine
dà un altro nome alla fase: «La morte dello Stato liberale».
Il 24 maggio, settimo anniversario della dichiarazione di guerra, è il cortocircuito. Mentre i fascisti pensano di espugnare il quartiere “rosso” di San Lorenzo, dai circoli socialisti e comunisti partono spari nell’oscurità contro la folla che segue la bara di Enrico Toti, il volontario civile privo di una gamba morto nella battaglia dell’Isonzo, accompagnandola per la sepoltura definitiva al cimitero del Verano, al suono patriottico della fanfara dei bersaglieri: barricate, sangue, urla e panico. Due giorni dopo un fuochista iscritto al Fascio, che aveva partecipato al corteo, spara per ritorsione a un operaio davanti a un’osteria di piazza Sant’Apollinare, e lo uccide. Alla Camera il governo parla di 3 morti, 44 feriti, 200 arrestati. Il socialista Bombacci urla che il proletariato deve armarsi e poiché lo Stato borghese non vuole proteggerlo «deve pensare da sé alla propria tutela». Per ragioni opposte anche Mussolini attacca il Capo del governo Facta, denunciando la scelta «immorale e suicida» di trattare allo stesso modo chi difende lo Stato e chi spara per demolirlo. Quello del Duce è un preannuncio di guerra: «È evidente il tentativo di controffensiva di tutta la criminalità del sovversivismo italiano. Ma noi, lungi dal temere l’assalto, lo aspettiamo, perché siamo sicuri di schiacciare la malabestia, una volta per sempre. Fascisti di tutt’Italia, consideratevi sin da questo momento materialmente e moralmente mobilitati ».
Nel mese fiammeggiante, con una scossa di terremoto a Ferrara tra due raduni fascisti, e il sangue di San Gennaro che si scioglie benevolo alle otto di sera del sabato, qualcuno ruba le lampadine per strada, notte dopo notte, e 300 metri di filo di rame da varie cabine, come se fosse possibile portar via il lampo della modernità che dissolve le ombre, «la divina Luce Elettrica — canta Marinetti — che libera dal venale chiaro di luna da camera ammobiliata». Ma un’ispezione generale rivela le condizioni disastrose in cui si trovano gli impianti, tanto che il Commissario Elettrico ordina ai prefetti delle province del centro- nord di ridurre la luce pubblica del 30 per cento e se necessario anche del 100 per cento dopo le undici di sera, cancellando l’illuminazione esterna degli edifici, rabbuiando le vetrine, le insegne, la pubblicità e vietando ai cittadini di tenere le luci accese in casa e negli uffici dalle otto del mattino alle cinque del pomeriggio. Mezza Italia si spegne, e tutto il Regno si muove a tentoni verso l’autunno 1922. Sembravano presidiare i canti che si alzavano dal salone, prima l’Inno dei lavoratori pergarantire che «ogni cosaè sudor nostro / noi disfar,rifar possiamo /la consegna sia: sorgiamo /troppolungofuildolor»;poil’Innodeipezzenti, per dichiarare che «noi siamo i poveri, siamo i pezzenti/la sporca plebediquestaetà/ la schiera innumere dei sofferenti / per cui la vita gioie nonha»;infine,primadell’Internazionale,ilcoro per l’Inno del Primo Maggio, cantato da tutti come ogniannosullamusicadelNabucco:«Vienio Maggio,t’aspettanlegenti/tisalutanoilibericuori /dolcePasquadeilavoratori/vieniesplendialla gloria del sol». Tutti i connotati con cui la sinistra definiva se stessa sembravano radunarsi in quellemusiche einquellastrada:illavoro,lafatica, lacoscienzadiclasse,laribellione,ilsoldell’avvenire. Maperchélafestaufficialediquestolunedì I maggio 1922 si fa al chiuso, dentro il salone che non riesce a contenere tutta la folla? Come mainoninpiazza,davantiallacittà?Elìfuori,quali ordinisonostatidatialleguardie,cheindividuano glioperaiconilgarofanoall’occhiellodelvestito dellafesta,iproletaricolfazzolettorossoalcollo, e li perquisiscono ad uno ad uno come se nascondessero addosso le armi? C’è molto da capire, quest’anno,mabisognaaffrettarsipertrovare ancora un posto nel salone dove la celebrazione unitaria della festa dei lavoratori si sta trasformando nel giorno dell’inquietudine: e lo squillo di tromba che alle tre in punto ordina il silenzio, oggisembraunallarme.
È successo che lo squadrismonon è solamente andato per mesi all’attacco dei sindacati operai, delle Leghe e delle cooperative, devastando lelorosedi edemolendol’organizzazione. E non ha soltanto costruito nelle Corporazioni il contro- sindacato fascista, spesso costringendo con laforzaiCapiLegaatraslocarenellenuoveorganizzazioni, agli ordinidellecamicienere.Adesso èarrivatoilmomentodiandareoltreecancellare l’elemento ideale, il deposito sentimentale del sindacalismonatodallavoro,daiferridelmestiere, dalla condivisione di una condizione comune, dalla embrionale coscienza di avere dei diritti, epoiaddiritturadipoterlirivendicare.Espertodi ritualità e liturgia, e di messinscena, Mussolini vuole estirpare anche la radice del mito proletario nel quale la sinistra si riconosce, racconta se stessa e si onora, rinnova la propria fedeltà. È l’attacco direttoalPrimoMaggio,ladatacheFilippo Turati oggi celebra per la trentaduesima volta, dietro la porta chiusa della Casa del Popolo spiegando che «il socialismo non muore e il Primo Maggioèeterno,esequest’annoècaricodidolori edidubbi,noisorridiamougualmenteserenidelle squadrecolrandello,perchélarafficadiquesta sanguinosa violenza ci fa dubitare della civiltà stessamanoncisapràmaiscalzare».
Propriomentreilleadersocialistaparlaaicompagni, i fascisti lanciano l’offensiva: a Milano una squadraconlemazzeferratecolpiscegliavversari allaFieraTivoli,vicinoallagiostra,poifuggesparando inviaAnfiteatrodovelasciaaterradueferiti, mentretuttalacittàèattraversatadaaggressioni aoperaiesocialisti.
Dappertuttoècacciaapertaalsovversivo.ABologna lebandenerecircondanoilteatroComunale dovesisvolgelamanifestazionesindacale,con lapoliziachenonfrenaleaggressionielemanganellate, un comunistaèucciso a colpi di pistolaa Rivabella,mentreaAlessandrial’onorevoleModigliani, socialista,primadiundibattitoèassediato in albergo da una folla di squadristi con urla, fischi esparidicastagnole.