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 2022  maggio 25 Mercoledì calendario

Berlinguer nei ricordi di chi lo scortava

C’è la politica, ma soprattutto c’è tanta umanità nel libro di Luca Telese La scorta di Enrico (Solferino). Infanzie felici o difficili, la fame e gli stenti dell’Italia povera, la lotta partigiana, un duro apprendistato operaio. Questo e molto altro si trova nelle biografie degli uomini che si occuparono della sicurezza di Enrico Berlinguer, vicesegretario e poi segretario del Partito comunista per un lungo tratto di storia dell’Italia repubblicana. Un leader popolare, per certi versi un’icona, di cui proprio oggi ricorre il centenario della nascita. Telese ha scavato nelle vite di coloro che lo accompagnarono per molti anni e ci restituisce ritratti dettagliati che inquadra nel contesto di tempi drammatici, segnati dai colpi del terrorismo nero e rosso. 
Al centro di tutto l’autorità – si direbbe quasi la sacralità – del partito, punto di riferimento centrale in quelle esistenze dedicate alla causa del socialismo. Un Pci organizzato quasi militarmente, come una fortezza assediata in territorio nemico, e al tempo stesso vibrante di sentimenti profondi, vissuto come una comunità nella quale si viene chiamati a prove e sacrifici in nome della speranza in un avvenire, se non proprio salvifico, certamente permeato in senso forte di giustizia sociale. Un modo di praticare la politica totalizzante, con tratti dogmatici, ma certamente dignitoso. E lontano anni luce dallo spettacolo decisamente mediocre, in certi casi davvero sgangherato, che offre il nostro presente. 
E allora passiamoli rapidamente in rassegna gli angeli custodi di Berlinguer, prendendo a prestito le parole dello stesso Telese. Innanzitutto «Alberto Menichelli, il romano di Roma, il figlio burbero dell’apparato che governa tutti con la sua ironia sottile, crea il gruppo e lo guida». Poi Dante Franceschini «il gigante buono, estroverso, loquace», un ex partigiano che ha partecipato alla liberazione di Firenze. Un altro che ha fatto la Resistenza: Lauro Righi, modenese che viene da «una famiglia di artigiani e di perseguitati politici». Pietro Alessandrelli, romano della borgata Quarto Miglio, «un militante umanissimo, capace d’intuizioni sorprendenti». Roberto Bertuzzi, un trovatello che ha molto sofferto da bambino e «diventa il figlio adottivo del partito». L’altro modenese «Otto» (in realtà si chiama Torquato) Grassi, provetto giocatore di biliardo (Otto è l’abbreviazione del soprannome Filotto), figlio di un vecchio stalinista che diffida del «sardegnolo» Berlinguer. Il terzo modenese, Alberto Marani, uomo «dalle mani d’oro», ineguagliabile in ogni sorta di lavoro con gli attrezzi. 
Ricchissimo di aneddoti – compreso lo sciopero del sesso, stile Lisistrata di Aristofane, attuato dalle mogli degli addetti di una tenuta agricola veneta – il libro di Telese è anche un racconto a episodi della carriera politica di Berlinguer, con gli inizi sassaresi, il trasferimento a Roma, la progressiva ascesa favorita da un Palmiro Togliatti, leader indiscusso del Pci, che individua nel funzionario sardo, presto promosso segretario dei giovani comunisti, la stoffa che serve a un dirigente politico di rilievo.  
Centrale in tutta la vicenda è l’invasione della Cecoslovacchia da parte dei sovietici nel 1968, con il soffocamento di quel «socialismo dal volto umano» di Alexander Dubcek in cui anche il Pci aveva riposto molte speranze. Si consuma allora il primo dissidio esplicito tra Mosca e Botteghe Oscure. A gestirne le conseguenze sarà Berlinguer, perché l’ictus che colpisce poco dopo il segretario Luigi Longo lo proietta al vertice del Pci. Mentre altri partiti comunisti, dopo aver criticato l’intervento militare a Praga, si tireranno indietro, il Pci resta fermo sulla posizione originaria. Forse anche lo strano incidente (Telese è convinto che fosse un attentato) di cui Berlinguer fu vittima in Bulgaria, nel 1973, ha a che fare con questa coraggiosa intransigenza. 
Di certo la strategia ideata da Berlinguer comprende sia l’allontanamento cauto e progressivo da Mosca, sia, sul piano della politica interna, l’ipotesi di un accordo tra le maggiori forze popolari per attenuare la polarizzazione ideologica del sistema politico italiano. Quest’ultimo progetto del «compromesso storico», in piena continuità con l’insegnamento togliattiano, deriva da un’altra terribile lezione proveniente dall’estero, il sanguinoso golpe cileno del 1973 contro il presidente socialista Salvador Allende. Berlinguer ha ben presenti i vincoli internazionali e di qui deriva la sua scelta di accettare la collocazione dell’Italia nella Nato. 
Il referendum sul divorzio, che vede il segretario comunista nei panni di deciso difensore della laicità dello Stato, apre la strada agli straordinari successi elettorali comunisti di metà degli anni Settanta. Poi viene la difficile fase della solidarietà nazionale, con il sostegno (inizialmente «non sfiducia») ai governi Andreotti, che trasforma il Pci in un bersaglio per la rabbia degli estremisti di sinistra, esplosa nel 1977 con la cacciata del segretario della Cgil Luciano Lama dall’Università di Roma. Seguono la discussa scelta dell’alternativa democratica in nome della questione morale, di cui Berlinguer si fa banditore con determinazione. E lo scontro senza esclusione di colpi con il Psi di Bettino Craxi. 
Il resoconto di Telese esprime ammirazione e sintonia verso un leader dalle grandi qualità umane, trascurandone forse i limiti e gli errori. Ma una volta scelto come punto di vista privilegiato quello della scorta di Berlinguer, uomini che gli erano affezionati fino alla devozione, non poteva essere diversamente.