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 2022  maggio 25 Mercoledì calendario

Biografia di Matteo Zuppi (nuovo presidente della Cei)

Gian Guido Vecchi, Corriere della Sera
Ci risiamo. A «don Matteo», quello vero, ora che guida la Cei toccherà sopportare ancora un po’ la faccenda del «prete di strada», una cosa che lo ha sempre fatto molto ridere: «E per forza, mi dica lei dove altro dovrebbe stare, un prete, in salotto?». Semmai, «per» strada. Come Francesco, che scelse Santa Marta invece del Palazzo apostolico, il cardinale Zuppi a Bologna non è andato a vivere all’arcivescovado ma nella casa del clero di via Barberia 24 insieme con i sacerdoti anziani in pensione, «mi daranno consigli». Da Roma si è portato la bicicletta con cui raggiunge ogni mattina la Curia e si sposta in città. 
Prete callejero, come piace a Francesco, ma non perché ormai usi così. Quand’era in quinta ginnasio, inizio anni Settanta, al liceo classico Virgilio di Roma ha conosciuto Andrea Riccardi, un ragazzo di 5 anni più grande che aveva fondato la comunità di Sant’Egidio. «Là ho incontrato un Vangelo vivo e imparato ciò che un cristiano deve fare: voler bene a Dio e al prossimo, e così a sé stessi». Tra i compagni di liceo c’erano Francesco De Gregori e Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma. C’era David Sassoli, di cui ha celebrato i funerali, «il compagno di scuola che tutti avremmo desiderato». E c’erano loro, i pionieri della comunità negli anni del fermento post-conciliare. Si trovavano a leggere il Vangelo e farne esperienza nella realtà, l’impulso ad aiutare i poveri e gli ultimi, le scuole popolari per i bambini delle baraccopoli in periferia, gli anziani soli, gli immigrati e i senza fissa dimora, i malati e i nomadi, i disabili e i tossici, i carcerati e i rifugiati.
Le Beatitudini, il Vangelo sine glossa. Alla Sapienza, Lettere e Filosofia, decise di diventare sacerdote: «Mi laureai in storia del cristianesimo, con una tesi sul cardinale Schuster. Padre Turoldo mi aiutò a capirlo: a Milano accolse tanti partigiani e poi, giustamente, si scandalizzò della barbarie di piazzale Loreto, non perché fosse antifascista o fascista ma perché era un padre e un monaco». Dopo il baccellierato in Teologia alla Lateranense, è stato parroco a Trastevere e in periferia a Torre Angela. Nel frattempo, fu tra i mediatori del processo di pace in Mozambico. «Ero viceparroco a Trastevere, celebravo nella borgata di Primavalle. La prima volta andammo in Mozambico nell’84. La siccità, la guerra. E i mercati vuoti, non c’era nulla. L’attenzione per gli altri ci rende migliori: la necessità di fare qualcosa, di non rassegnarsi alla logica dell’impossibilità». 
Vescovo ausiliare di Roma nel 2012, Francesco lo sceglie come arcivescovo di Bologna nel 2015 e lo fa cardinale nel 2019. Quinto di sei figli, è il secondo porporato in famiglia dopo Carlo Confalonieri: «Era lo zio di mia madre, di Seveso, già segretario di Pio XI. Ricordo il suo rigore ambrosiano, l’idea del servizio alla Chiesa: oneri e non onori».


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Paolo Rodari, la Repubblica
Chi lo conosce bene racconta che non ci sperava più di tanto nella nomina, gravosa, alla guida della Cei, pur sapendo di essere insieme al cardinale Paolo Lojudice tra i favoriti. Matteo Zuppi, “don Matteo” per tutti, 66 anni, romano, arcivescovo di Bologna, è sempre rimasto fedele alla semplicità che ha contraddistinto il suo sacerdozio prima, l’episcopato poi.
Quando nel 2019 Papa Francesco lo creò cardinale non a caso disse: «Dobbiamo cercare di essere sempre ultimi nell’amore e metterci sempre al servizio degli altri».
Legato alla Comunità di Sant’Egidio fin dagli anni del liceo, al Virgilio di Roma (qui conobbe Andrea Riccardi, «un ragazzo poco più grande di me» — ha raccontato il fondatore della Comunità ed ex ministro — che parlava del Vangelo a tanti altri ragazzi in maniera così diretta e nello stesso tempo con tanta conoscenza»), una laurea in Lettere, decise di farsi prete nella diocesi di Palestrina per poi incardinarsi a Roma, prete «di strada» fin dagli esordi. Da allora a oggi ha sempre lavorato per unire, così anche a Bologna dove ha avuto la stessa attenzione per le sensibilità più vicine al pontificato in corso, fra queste la scuola dossettiana, e quelle più conservatrici che avevano nei suoi predecessori una loro espressione. Ne sono un esempio, in qualche modo, gli attestati di stima trasversali che il mondo politico e religioso gli tributa in queste ore.
Zuppi, che è stato anche viceparroco di Vincenzo Paglia a Santa Maria in Trastevere, si è sempre distinto per l’instancabile azione a sostegno degli ultimi, degli immigrati, dei rom, senza escludere l’attività di diplomazia esercitata con Sant’Egidio. Significative, in questo senso, le prime parole che rivolse alla diocesi appena eletto. Disse, citando il Concilio Vaticano II, monsignor Oscar Romero e Giovanni XXIII, che la Chiesa deve essere «di tutti, proprio di tutti, ma sempre particolarmente dei poveri ». Caffarra gli lasciò in “eredità” (il proprietario aveva donato tutto alla diocesi) il cento per cento delle quote della Faac, l’azienda bolognese attiva nei cancelli automatici. Lui ha elargito i dividendi ai poveri.
A Bologna interpreta al meglio quella Chiesa dei poveri che ebbe in don Paolino Serra Zanetti, in padre Marella e nelle Case della carità una sua espressione. Spesso si muove in bici. Fin dall’inizio ha deciso di non risiedere nell’arcivescovado, ma nella casa del clero. «Ho sempre vissuto insieme ad altri — disse tempo fa a Repubblica — . Abitare in una casa dove vivono altri sacerdoti è per me occasione di confronto in un cammino nel quale sento il bisogno di condividere ». In lui Francesco rivede forse sé stesso, negli anni di Buenos Aires. Come il Papa, infatti, Zuppi ha sempre valorizzato quella pietà popolare che altri sacerdoti faticano a comprendere. A Trastevere, i primi anni, fu tentato di considerare queste manifestazioni come sopravvivenze del passato. E invece, disse, «vi ho scoperto tanta profondità spirituale».


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Domenico Agasso, La Stampa
Dalle periferie di Roma è arrivato a via Aurelia, da dove guiderà i vescovi italiani nei prossimi cinque anni. Con un grande sogno: una Chiesa che «sta per strada, parla a tutti e vuole raggiungere il cuore di tutti», usando «un’unica lingua, quella dell’amore», per farsi capire «nella Babele del mondo». Sono le prime parole dal sapore programmatico del cardinale Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di Bologna, nominato ieri da papa Francesco presidente della Conferenza episcopale italiana (Cei).
Nella sua città d’adozione nessuno lo chiama «eminenza», per tutti è sempre «don Matteo». Zuppi gira in bicicletta e ha scelto di vivere nella «Casa del clero», dove abitano i preti anziani, anziché nell’appartamento in arcivescovado.
Nato a Roma l’11 ottobre 1955, quinto di sei figli, nei corridoi del Liceo Virgilio nasce e si salda il legame con Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, negli anni in cui frequentava la scuola di via Giulia un altro amico, David Sassoli, futuro presidente del Parlamento europeo.
Zuppi inizia a frequentare le baraccopoli romane, le scuole popolari per i bambini emarginati, le feste per gli anziani soli e non autosufficienti. E poi i clochard, i rom, gli immigrati, i carcerati. A 22 anni, dopo la laurea in Lettere all’Università La Sapienza, entra nel seminario della diocesi di Palestrina, seguendo i corsi di preparazione al sacerdozio alla Pontificia Università Lateranense, dove consegue il baccellierato in Teologia. Ordinato prete nel 1981, diventa vice del parroco della basilica romana di Santa Maria in Trastevere, Vincenzo Paglia, futuro monsignore presidente della Pontificia Accademia per la Vita e consigliere spirituale di Sant’Egidio. Gli succederà nel 2000 per dieci anni. «Lo conosco fin da giovane», dice Paglia, «don Matteo è un cardinale-pastore che non ha perso lo spirito del prete di strada, ed è capace di dialogare con tutti, dentro e fuori il recinto cattolico».
Zuppi, promotore del dialogo interreligioso, è protagonista delle mediazioni nel mondo con l’«Onu di Trastevere» (come viene chiamata Sant’Egidio, di cui diverrà assistente ecclesiastico) per riportare la pace dove sembrava impossibile, in particolare in Mozambico. Nel 2010 viene chiamato a guidare una parrocchia di periferia, a Torre Angela. Poco dopo, il 31 gennaio 2012 Benedetto XVI lo sceglie come vescovo ausiliare di Roma. Il 27 ottobre 2015 Bergoglio gli affida la sede di Bologna e il 5 ottobre 2019 lo crea cardinale.
A Bologna Zuppi si è ritrovato «titolare» della Faac, multinazionale dei cancelli automatici. Ma si è rivelato più sindacalista che imprenditore: no ai licenziamenti, sì a iniziative che agevolino il rapporto dei dipendenti genitori con i figli, sono le sue linee guida.
«Sinodalità e collegialità», senza dimenticare le sofferenze del mondo. Presenta così la sua missione come nuovo presidente della Cei. Guarda all’attualità e al «momento che stiamo vivendo, sia in Italia, in Europa e nel mondo, sia come Chiesa, perché le cose sono strettamente unite». Quindi «le pandemie»: anzitutto il Covid «con tutto quello che ha rivelato delle nostre fragilità e debolezze, con le domande che ha aperto, le consapevolezze e le dissennatezze che ha provocato». E ora «la pandemia della guerra» che il Papa «con tanta insistenza» ha stigmatizzato in questi anni. In una recente intervista a La Stampa Zuppi ha chiesto di «aiutare le vittime in Ucraina e fermare il carnefice», ma ha evidenziato anche che «la guerra non si supera con la guerra. Esiste il diritto alla legittima difesa, ma ancora di più c’è il diritto alla pace».
La vicinanza è per Zuppi «una delle cose che mi solleva di più». E confida di sentire sulle spalle la propria «piccolezza e inadeguatezza: spero di restarne sempre consapevole».
Poi, un ricordo dei predecessori. Ringrazia per la «fraternità che ha creato» il cardinale Gualtiero Bassetti; e «per la loro sapienza» i cardinali Camillo Ruini e Angelo Bagnasco: «Ho chiamato poco fa entrambi, chiedendo udienza».