ItaliaOggi, 24 maggio 2022
Il Forum di Davos conta sempre meno
Il numero degli invitati al Forum di Davos in Svizzera è sempre elevato: 2.500 da tutto il mondo, tranne che dalla Russia di Vladimir Putin, esclusa per punizione. Di questi invitati, 50 sono capi di Stato e di governo, altri 250 sono ministri. Gli altri sono manager a capo di grandi banche e di multinazionali che operano in settori strategici, più decine di miliardari che non disdegnano le luci della ribalta, tutti scelti con cura da Klaus Schwab, 84 anni, fondatore e organizzatore del Forum.
Nei suoi desideri, il Forum vorrebbe essere una sorta di Onu del mondo degli affari, che ogni anno dà la linea all’economia internazionale in base a due principi: globalizzazione e libertà dei commerci. Principi che, all’inizio della pandemia, lo stesso Schwab pose alla base di un cambiamento epocale, da lui battezzato Grand Reset: una quarta rivoluzione industriale basata su intelligenza artificiale, energie green, telelavoro e telemedicina, e destinata a consegnare ai capi della finanza mondiale e alle multinazionali over the top il vero governo del mondo, con un controllo totale su consumi, produzioni e benessere, in sostanza sul tenore di vita, la privacy e la libertà di miliardi di persone.
Quel sogno orwelliano, pensato da Schwab come un modello per l’Occidente, ma criticato da più parti per l’arroganza anti-democratica e anti-sociale, è stato rallentato nel suo divenire prima dalla pandemia e ora dalla guerra in Ucraina, ma non bloccato del tutto. Tanto è vero che il Forum torna a riunirsi nel tentativo di ridisegnare la linea da dettare al mondo, anche se con molta baldanza in meno rispetto al passato. Da tempo, soprattutto negli ultimi tre mesi, la geopolitica mondiale è profondamente cambiata. Il mercato globale dei commerci si è ridotto, in parte non c’è più. E la guerra in Ucraina ha accelerato le fratture in aree geopolitiche con interessi divergenti, spesso contrapposte. La Russia di Vladimir Putin è ormai talmente isolata dal mondo occidentale che perfino Schwab non ha invitato a Davos neppure un oligarca o un politico russo, mentre in passato sosteneva la necessità di dialogare con Putin, più volte invitato a Davos, l’ultima nel 2021 in streaming. E gli inviti alle feste serali degli oligarchi erano molto ricercati.
Quanto alla Cina, che proprio grazie alla globalizzazione e alla libertà dei commerci è diventata la fabbrica del mondo ed è uscita dalla povertà fino a diventare la seconda potenza mondiale, sono sempre più evidenti i tratti dell’autocrazia: rifiuta il modello democratico occidentale e vi si contrappone, sfidando la supremazia degli Stati Uniti, dopo averne acquisito negli anni una quantità elevata di produzioni industriali strategiche, compreso il know-how tecnologico. Da qui la risposta, a dir poco storica, di Janet Yellen, segretaria al Tesoro degli Stati Uniti, che in un discorso al Consiglio Atlantico ha proposto non solo una nuova Bretton Woods e una riforma del Fmi e della Banca Mondiale, ma anche l’adozione del metodo “friend-shoring” nel commercio mondiale. Un neologismo che pone fine al globalismo neoliberale per sostituirlo con un import-export basato sul «trasferimento amichevole delle catene di forniture a un gran numero di paesi fidati». In buona sostanza, il passaggio a un’economia dove il libero scambio può essere davvero libero soltanto se svolto tra paesi che operano con valori condivisi. Una prospettiva che, però, non tutti accettano, Germania in testa.
Così non stupisce che il New York Times scriva che i principi dei quali il Forum di Davos è stato per anni un promotore, come «globalizzazione, liberalismo, capitalismo di mercato e democrazia rappresentativa, sembrano essere sotto assedio». Né che l’Economist ricordi che la pandemia ha portato con sé “una crisi molto grave della democrazia globale, per cui molti paesi sono diventati autoritari, mentre in altri le libertà sono state ridotte». Lo stesso Schwab ammette che «stiamo assistendo alla frammentazione del mondo». E Borge Brende, presidente del World Economic Forum, nel video di presentazione dell’edizione di quest’anno, conviene che mai, finora, abbiamo visto così tanti «rivolgimenti geopolitici e geoeconomici».
È opinione diffusa che, proprio a causa delle fratture geopolitiche, il Forum di Davos conterà sempre meno, fino a giustificare chi lo considerava un’adunata mondiale di miliardari famosi, i quali discettavano dei destini del mondo, ma senza incidervi più di tanto, tranne che per i loro interessi personali. Un aspetto, quest’ultimo, documentato in ogni edizione dal rapporto Oxfam sulla ricchezza dei miliardari, messa a confronto con la crescente povertà. Anche quest’anno i dati Oxfam, che si batte contro le povertà, confermano il solito divario: grazie alla pandemia, i ricchi sono diventati ancora più ricchi e numerosi, e i poveri sempre più poveri.
In breve: i miliardari nel mondo sono aumentati di 573 unità, salendo a un totale di 2.668 Paperoni, che posseggono una ricchezza netta pari a 12.700 miliardi di dollari, equivalente al 13,9% del pil mondiale, mentre era solo il 4,4% del Duemila. Le multinazionali di tre settori (energia, farmaceutica e alimentari) hanno fatto registrare negli ultimi due anni una crescita della loro ricchezza superiore a quella registrata nei 23 anni precedenti. La famiglia Cargill, che con altre tre grandi imprese controlla il 70% del mercato agricolo globale, ha fatto profitti netti per 5 miliardi di dollari. Grazie ai vaccini, Pfizer e Moderna hanno realizzato mille dollari di utile al secondo, ricchezza rimasta in dote privata, pur avendo le stesse aziende ricevuto robusti finanziamenti pubblici per studiare il vaccino. I poveri, invece, sono rimasti schiacciati dall’aumento del costo della vita. La soluzione? Oxfam (copiona?) propone ai governi di tassare gli extraprofitti per aiutare i poveri. Mario Draghi ci aveva già pensato